FRIGIDO. VITA DI UN ARCHIVIO. Progetto di Alice Pedroletti. A cura di Cristina Baldacci. Frigoriferi Milanesi, Sala Carroponte. Milano.
Testo critico di Cristina Baldacci.
C’è qualcosa di perturbante in Frigido, che non riguarda unicamente il senso di freddo, distacco, indifferenza, evocato dal titolo. È l’affiorare di quel timore che si rinnova ogni volta che ci si trova ad essere testimoni involontari e inermi della distruzione, della diaspora, del controllo totalitario di un archivio e con esso della cancellazione, parziale o totale, della memoria. Il “mal d’archivio” che riecheggia nella personale damnatio memoriae operata da Alice Pedroletti è tuttavia soltanto temporaneo, dal momento che l’atto del distruggere non segna una fine, bensì una rinascita.
Con consapevolezza e sistematicità, l’artista-fotografa si libera delle immagini che ha prodotto e conservato negli anni immergendo le loro matrici nell’azoto liquido, che, insieme all’elio, è uno dei refrigeranti più efficaci. Le bassissime temperature a cui sono esposti i negativi – quasi duecento gradi sotto zero –, producono un irrigidimento della materia, che, una volta estratta dall’azoto, diventa particolarmente friabile (l’uso strategico del freddo, qui portato agli estremi, è anche un rovesciamento del suo abituale impiego nella conservazione delle pellicole e delle stampe fotografiche). Con la complicità del caso, Alice procede alla frantumazione manuale dei negativi, annullando ogni possibilità di riproduzione delle immagini, quasi ogni traccia di figurazione e, soprattutto, la prova tangibile di parte del suo vissuto e dei suoi vecchi lavori fotografici.
Questa azione decisiva e radicale, oltre ad avere un valore catartico, sposta l’attenzione dall’immagine al suo supporto, dall’ambito della visione a quello della materia. L’artista non produce nuove immagini, ma frammenti oggettuali di varie dimensioni e colori che, nonostante in certi casi possano ancora creare l’illusione di rimandare a una realtà “perduta”, a un ricordo sbiadito o spezzato – specialmente quando nei frammenti si intravedono isolati particolari figurativi –, assumono un inedito significato come testimonianze di un processo artistico. A questi microscopici oggetti, Alice affida il compito di tramandare un’altra memoria: non più l’ombra di persone, luoghi, esperienze passate, ma il segno concreto del suo fare quotidiano, di una prassi che da fotografica si fa quasi scultorea. Il congelamento e la rottura dei negativi sono accompagnati da una scrupolosa analisi.
A metà tra lo scienziato e l’alchimista dilettante, Alice sperimenta e prende appunti, registrando ogni più piccolo passaggio, cambiamento, scoperta. Procede poi alla catalogazione dei frammenti, che non segue né un ordine cronologico (dato dalle diverse fasi del lavoro), né concettuale, ma unicamente formale. Tutti i pezzettini, tranne qualche rara eccezione, tra cui quei pulviscoli che, pur non essendo classificabili, certificano la metamorfosi della materia, vengono meticolosamente sistemati. Uno alla volta o in piccoli insiemi sono ripartiti in bustine, telai e cornici a seconda della misura, da un massimo di tre centimetri a un minimo di uno o mezzo centimetro. È così che l’artista, sui brandelli del suo primo archivio, ne costruisce progressivamente un secondo, rinnovando al contempo anche il suo modo di operare.Frigido. Vita di un archivio è il racconto, aperto e in divenire, di questa singolare procedura, di questo impulso ossessivo alla conservazione di tutto ciò che fa parte di sé, anche quando il motore principale sembra essere un desiderio di allontanamento da ciò che è stato. Ed è inoltre una rivelazione di come anche il più piccolo frammento, se guardato attentamente, come attraverso un microscopio, o proiettato e ingrandito su parete, possa suscitare inaspettate visioni, suggestioni, corrispondenze. | EN
FRIGIDO. Progetto di Alice Pedroletti. A cura di Cristina Baldacci. Frigoriferi Milanesi, Sala Carroponte. Milano.
Testo di Alice Pedroletti.
Ho scelto il freddo (frigidus) come idea di immobilità definitiva, di rottura con la forma esistente. Il freddo non è più qualcosa da cui doversi o potersi proteggere, ma qualcosa da affrontare. Frigido è il pensiero, il ricordo, è l’attimo in cui il dolore di un’emozione ci fa crescere. Frigido è il distacco, la cesura con il passato.
Lavoro con l’azoto allo stato liquido perché produce un’alterazione molecolare sorprendente. Una volta immerso nell’azoto, un oggetto (nel mio caso un negativo) si “congela” e si spacca in modo forzato e irreversibile, muta essenza e significato e assume una nuova forma. Come fotografa racconto per immagini qualcosa che passa e che svanisce nel tempo. In un percorso di crescita continua, lascio dietro di me situazioni, emozioni, incontri, persone, stati d’animo, luoghi, ricordi. La mia memoria è come un amplificatore che fa diventare ciò che è personale universale. È così che, nel mio archivio, negativi e diapositive non sono mai veramente selezionati e ordinati, ma ammucchiati distrattamente, senza date, solo con una generica denominazione per soggetto, in scatole, buste, cassetti.
È un insieme di ricordi da custodire, ma anche da lasciare andare. Ci sono cose per cui preservare uno spazio, altre per cui fare spazio. Sempre comunque troppe cose, poco spazio e ancora meno tempo. Eventi passati da dimenticare, però fisicamente ancora presenti. Voglio cambiarli in qualcosa di diverso. Voglio superare quel limite che è il pensiero, il ricordo. Voglio trasfomare. Non voglio più riaprire scatole. Non sono tenuta a ricordare tutto. Voglio imparare. Nel fotografare qualcosa c’è un istinto che non so spiegare; un’azione veloce, a volte troppo veloce. Un’attrazione per qualcosa che vedo: dei colori che mi parlano o una luce che mi rende impossibile guardare altrove. Qualcosa di magico che rimane congelato in piccoli oggetti apparentemente fragili. Ecco come nasce un archivio: uno dopo l’altro, negativi e diapositive costruiscono vite e avvenimenti. Eppure, nessuno li tocca, nessuno li vede. Sono protagonisti nascosti della storia di ognuno di noi. Sono la matrice, l’idea, il pensiero. È la stampa (il medium) che ne svela la forma, che li rende visibili. Distruggerli per me è un atto di violenza, di dolore. Una negazione di me stessa e, allo stesso tempo, una liberazione. Mi sono chiesta spesso cosa sia la fotografia per me. Un linguaggio, un vocabolario, un alfabeto, il mio legame con il mondo esterno. Come in ogni rapporto profondo, arriva un momento in cui il distacco è necessario. Si diventa grandi, si prende la propria strada; ci si allontana dalla famiglia per crearne una propria, per essere indipendenti. La fotografia per me è questo: una relazione da chiudere e da riaprire attraverso nuove forme, e, prima di tutto, attraverso una rottura.
Questo progetto riguarda il mio rapporto con l’arte e le immagini. Parte da un luogo, l’archivio, in cui l’immagine fotografica è conservata al freddo, fino ad arrivare alla distruzione e alla costruzione di un nuovo archivio tramite il freddo. In questo processo, il rapporto tra materia e artista si capovolge. Quando si crea un’immagine l’istinto è umano, mentre l’azione tecnica è meccanica. Quando si distrugge (per ricreare) l’istinto appartiene alla materia, mentre il gesto dell’artista diventa tecnico, una procedura fredda.
In entrambi i casi, c’è qualcosa che rimane senza controllo: il tempo. Forse è per questo che adesso ho deciso di ri-costruire il mio archivio. | EN
Testo critico di Cristina Baldacci.
C’è qualcosa di perturbante in Frigido, che non riguarda unicamente il senso di freddo, distacco, indifferenza, evocato dal titolo. È l’affiorare di quel timore che si rinnova ogni volta che ci si trova ad essere testimoni involontari e inermi della distruzione, della diaspora, del controllo totalitario di un archivio e con esso della cancellazione, parziale o totale, della memoria. Il “mal d’archivio” che riecheggia nella personale damnatio memoriae operata da Alice Pedroletti è tuttavia soltanto temporaneo, dal momento che l’atto del distruggere non segna una fine, bensì una rinascita.
Con consapevolezza e sistematicità, l’artista-fotografa si libera delle immagini che ha prodotto e conservato negli anni immergendo le loro matrici nell’azoto liquido, che, insieme all’elio, è uno dei refrigeranti più efficaci. Le bassissime temperature a cui sono esposti i negativi – quasi duecento gradi sotto zero –, producono un irrigidimento della materia, che, una volta estratta dall’azoto, diventa particolarmente friabile (l’uso strategico del freddo, qui portato agli estremi, è anche un rovesciamento del suo abituale impiego nella conservazione delle pellicole e delle stampe fotografiche). Con la complicità del caso, Alice procede alla frantumazione manuale dei negativi, annullando ogni possibilità di riproduzione delle immagini, quasi ogni traccia di figurazione e, soprattutto, la prova tangibile di parte del suo vissuto e dei suoi vecchi lavori fotografici.
Questa azione decisiva e radicale, oltre ad avere un valore catartico, sposta l’attenzione dall’immagine al suo supporto, dall’ambito della visione a quello della materia. L’artista non produce nuove immagini, ma frammenti oggettuali di varie dimensioni e colori che, nonostante in certi casi possano ancora creare l’illusione di rimandare a una realtà “perduta”, a un ricordo sbiadito o spezzato – specialmente quando nei frammenti si intravedono isolati particolari figurativi –, assumono un inedito significato come testimonianze di un processo artistico. A questi microscopici oggetti, Alice affida il compito di tramandare un’altra memoria: non più l’ombra di persone, luoghi, esperienze passate, ma il segno concreto del suo fare quotidiano, di una prassi che da fotografica si fa quasi scultorea. Il congelamento e la rottura dei negativi sono accompagnati da una scrupolosa analisi.
A metà tra lo scienziato e l’alchimista dilettante, Alice sperimenta e prende appunti, registrando ogni più piccolo passaggio, cambiamento, scoperta. Procede poi alla catalogazione dei frammenti, che non segue né un ordine cronologico (dato dalle diverse fasi del lavoro), né concettuale, ma unicamente formale. Tutti i pezzettini, tranne qualche rara eccezione, tra cui quei pulviscoli che, pur non essendo classificabili, certificano la metamorfosi della materia, vengono meticolosamente sistemati. Uno alla volta o in piccoli insiemi sono ripartiti in bustine, telai e cornici a seconda della misura, da un massimo di tre centimetri a un minimo di uno o mezzo centimetro. È così che l’artista, sui brandelli del suo primo archivio, ne costruisce progressivamente un secondo, rinnovando al contempo anche il suo modo di operare.Frigido. Vita di un archivio è il racconto, aperto e in divenire, di questa singolare procedura, di questo impulso ossessivo alla conservazione di tutto ciò che fa parte di sé, anche quando il motore principale sembra essere un desiderio di allontanamento da ciò che è stato. Ed è inoltre una rivelazione di come anche il più piccolo frammento, se guardato attentamente, come attraverso un microscopio, o proiettato e ingrandito su parete, possa suscitare inaspettate visioni, suggestioni, corrispondenze. | EN
FRIGIDO. Progetto di Alice Pedroletti. A cura di Cristina Baldacci. Frigoriferi Milanesi, Sala Carroponte. Milano.
Testo di Alice Pedroletti.
Ho scelto il freddo (frigidus) come idea di immobilità definitiva, di rottura con la forma esistente. Il freddo non è più qualcosa da cui doversi o potersi proteggere, ma qualcosa da affrontare. Frigido è il pensiero, il ricordo, è l’attimo in cui il dolore di un’emozione ci fa crescere. Frigido è il distacco, la cesura con il passato.
Lavoro con l’azoto allo stato liquido perché produce un’alterazione molecolare sorprendente. Una volta immerso nell’azoto, un oggetto (nel mio caso un negativo) si “congela” e si spacca in modo forzato e irreversibile, muta essenza e significato e assume una nuova forma. Come fotografa racconto per immagini qualcosa che passa e che svanisce nel tempo. In un percorso di crescita continua, lascio dietro di me situazioni, emozioni, incontri, persone, stati d’animo, luoghi, ricordi. La mia memoria è come un amplificatore che fa diventare ciò che è personale universale. È così che, nel mio archivio, negativi e diapositive non sono mai veramente selezionati e ordinati, ma ammucchiati distrattamente, senza date, solo con una generica denominazione per soggetto, in scatole, buste, cassetti.
È un insieme di ricordi da custodire, ma anche da lasciare andare. Ci sono cose per cui preservare uno spazio, altre per cui fare spazio. Sempre comunque troppe cose, poco spazio e ancora meno tempo. Eventi passati da dimenticare, però fisicamente ancora presenti. Voglio cambiarli in qualcosa di diverso. Voglio superare quel limite che è il pensiero, il ricordo. Voglio trasfomare. Non voglio più riaprire scatole. Non sono tenuta a ricordare tutto. Voglio imparare. Nel fotografare qualcosa c’è un istinto che non so spiegare; un’azione veloce, a volte troppo veloce. Un’attrazione per qualcosa che vedo: dei colori che mi parlano o una luce che mi rende impossibile guardare altrove. Qualcosa di magico che rimane congelato in piccoli oggetti apparentemente fragili. Ecco come nasce un archivio: uno dopo l’altro, negativi e diapositive costruiscono vite e avvenimenti. Eppure, nessuno li tocca, nessuno li vede. Sono protagonisti nascosti della storia di ognuno di noi. Sono la matrice, l’idea, il pensiero. È la stampa (il medium) che ne svela la forma, che li rende visibili. Distruggerli per me è un atto di violenza, di dolore. Una negazione di me stessa e, allo stesso tempo, una liberazione. Mi sono chiesta spesso cosa sia la fotografia per me. Un linguaggio, un vocabolario, un alfabeto, il mio legame con il mondo esterno. Come in ogni rapporto profondo, arriva un momento in cui il distacco è necessario. Si diventa grandi, si prende la propria strada; ci si allontana dalla famiglia per crearne una propria, per essere indipendenti. La fotografia per me è questo: una relazione da chiudere e da riaprire attraverso nuove forme, e, prima di tutto, attraverso una rottura.
Questo progetto riguarda il mio rapporto con l’arte e le immagini. Parte da un luogo, l’archivio, in cui l’immagine fotografica è conservata al freddo, fino ad arrivare alla distruzione e alla costruzione di un nuovo archivio tramite il freddo. In questo processo, il rapporto tra materia e artista si capovolge. Quando si crea un’immagine l’istinto è umano, mentre l’azione tecnica è meccanica. Quando si distrugge (per ricreare) l’istinto appartiene alla materia, mentre il gesto dell’artista diventa tecnico, una procedura fredda.
In entrambi i casi, c’è qualcosa che rimane senza controllo: il tempo. Forse è per questo che adesso ho deciso di ri-costruire il mio archivio. | EN