IT | Così è la stirpe delle foglie, 2024
Testo Alice Vangelisti
Resti solitari, testimoni labili di una vita passata, sono ricuciti all’interno di un rinnovato archivio dell’esistenza, raccontata in un viaggio attraverso “architetture” di una memoria cancellata e ricomposta, dove il senso del frammento diviene l’essenza stessa della narrazione. Questa è l’anima di Frigido che parte proprio da qui: un archivio distrutto in maniera sistematica, consapevole e “fredda” da Alice Pedroletti, evocando l’ombra dell’inevitabile fine che ogni inizio porta perennemente con sé. Ma in questo caso, l’artista, lottando contro l’oblio e la cancellazione di memoria, dà vita a una nuova visione
della sua personale esistenza – che in senso lato diventa universale – producendo un mondo sospeso tra il reale e l’immaginario in una dimensione di sfumature e ambiguità. Il tutto è reso possibile grazie a un’azione radicale: l’azoto liquido irrigidisce le pellicole dell’archivio dell’artista, che diventano così fragili da permetterle di spezzarli con le dite in piccoli oggetti, che ne fanno perdere qualsiasi senso dell’unità originaria. Ma ecco che allora da questo suo procedimento, ripetuto centinaia di volte come a voler governare il destino, prende vita un tessuto narrativo, ricco e complesso: il frammento diventa astrazione, memore di un passato ormai “infranto”, certificando in qualche modo il carattere transitorio e mutevole della nostra esistenza. L’artista ci mostra così come il passato non è mai lineare o definitivo, ma piuttosto lo dobbiamo intendere come una collezione in fieri di piccoli pezzi. Questi risultano qui catalogati sistematicamente all’interno di un archivio rinnovato, privo però di qualsiasi immagine o riferimento visivo a quello precedente, evocando allo stesso tempo una riorganizzazione e reinterpretazione dei ricordi in potenzialmente infinite configurazioni. Così facendo Pedroletti ci invita a riflettere anche sul concetto stesso di memoria e identità, ma anche sulla natura mutevole della nostra percezione del passato e su un processo di incontrollata distruzione dello stesso, ricordandoci nuovamente i territori labili della condizione umana. Quello che sorge è allora una sorta viaggio emozionale e psicologico in cui il senso del tempo in qualche modo viene annullato, le frontiere tra reale e immaginario si confondono e nascono nuovi spazi ordinati all’interno di un labirinto di memorie e sensazioni, le quali ci inducono a esplorare ancora più a fondo il significato stesso della nostra vita. [Estratto dal catalogo Così è la stirpe delle foglie].
IT | documenta 15: una riflessione collettiva, 2022
Una visione collettiva su documenta 15. A cura di Alice Pedroletti e Alessandra Saviotti. Testi di Lucrezia Calabrò Visconti, Fabiola Fiocco, Alessandra Saviotti, Elvira Vannini, Alice Pedroletti, Aria Spinelli, Marianna Liosi, Lucia Veronesi. Parte 1 – Parte 2 .
Introduzione di Alice Pedroletti, Alessandra Saviotti.
In questo particolare anno, ad una Biennale di Venezia che ha mostrato soprattutto artiste donne e artistə non binariə ha fatto eco una più piccola, controversa e criticata, Biennale di Berlino. La prima segnando un punto importante per la direzione che a gran voce la comunità artistica chiede – inclusività, uguaglianza, attenzione – la seconda decretando la fine della complessa figura dell’artista-curatore. In questa cornice intricata, in un momento storico per moltə di noi impossibile da immaginare fino a un paio d’anni fa, si inserisce documenta fifteen, manifestazione che proprio con questa sua ultima edizione rompe gli equilibri tipici delle grandi mostre d’arte internazionale di stampo occidentale. Dopo averla visitata ci siamo chieste quindi come raccontarne la complessità e la ricchezza a chi non ci fosse statə, cominciando a scambiarci molte riflessioni, consigli, pareri, e speranze. A distanza di qualche mese, abbiamo capito che fosse necessario parlarne con un approccio diverso: non attraverso il solito ‘report’ o la classica recensione, piuttosto con un glossario che fosse sia lessico che emozione, per recuperare una delle modalità di lavoro di ruangrupa, il collettivo che ha curato la mostra. Abbiamo esteso l’invito a condividere le proprie riflessioni ad un gruppo di colleghe ed amiche invitandole a proporre una parola e abbinarla ad uno o più lavori presenti in mostra. Quello che leggerete è un glossario di termini abbinati ad una precisa sensazione di fronte ad un lavoro, o in generale alla mostra, che sottolinea come documenta fifteen abbia attraversato tutti i nostri sensi, non solo quelli prettamente dedicati alla percezione visiva.
Testo di Alice Pedroletti
Parola: FIDÙCIA (trust) | s. f. [dal lat. fiducia, der. di fidĕre «fidare, confidare»]
La prima cosa che mi sono appuntata entrando al Fridericianum è stata la parola trust: un senso di fiducia diffuso, che abitava lo spazio in modo quasi organico. Un’entità effimera, un’energia densa che scorreva di porta in porta, di ricerca in ricerca e presente in ogni installazine: in quelle più o meno “riuscite” – secondo una classica visione dell’arte e in quelle inattese e poetiche che per nostra fortuna, in questa edizione di Documenta, hanno occupato la maggior parte dello spazio fruibile.
Una fiducia quasi incondizionata nei confronti del pubblico, considerato in primo luogo come insieme di persone capaci di pensare, partecipare, collaborare, interagire, reagire. Fiducia tra artworkers, educatori, attivisti e verso un’altro pubblico ancora: quello presente nei processi già realizzati in luoghi distanti, ma con noi presenti nelle moltissime immagini, testi e video. Fiducia nel processo stesso di creazione, libero dalla richiesta di produrre un’opera, ma piuttosto di ‘essere opera’, qualsiasi sia la forma finale assunta, materiale o imateriale che sia.
Una fiducia fino all’ultimo giorno riposta anche nelle istituzioni in primo luogo tedesche, ma direi europee, che hanno in parte tradito questo sentimento e questa voglia di creare cultura in modo diverso, riflettendo ai molteplici significati di fare arte come forma di resistenza o sopravvivenza per esempio. Una fiducia che mi ha emozionata e fatta arrabbiare: una richiesta di responsabilità diversa che come singola non posso non accogliere, ma nemmeno in qualche modo soddisfare senza a mia volta avere il supporto e collaborazione di altre persone. Un sistema rizomico che parte tutto da un’idea di fiducia dimenticata, fragile, da preservare e infine salvare; un sistema schiacciato da una politica capitalista in cui moltissime persone non si riconoscono più e che rifiutano, con consapevolezza di voler vivere in modo più libero e sostenibile. Che siano artistə o pubblico davvero a questo punto non conta più.
Artisti | Luogo: La Intermundial Holobiente | Compost Heap
L’installazione di La Intermundial Holobiente, che racconta il processo creativo collettivo della stesura di The Book of The Ten Thousand Things – scritto e curato in modo polifonico tra quattordici artisti e scrittori dall’Argentina -, parte dall’idea di un testo scritto da un’entità non umana con cui scrittori e artisti interagiscono. Per due anni gli argentini Claudia Fontes, artista, Paula Fleisner, filosofa e Pablo Martin Ruiz, scrittore e traduttore, si sono riuniti a scadenza settimanale per pensare a come rispondere, attraverso una metodologia di creazione collettiva, al problema politico della rappresentanza, della autorialità e dell’interpretazione del non umano scegliendo di adottare un approccio radicalmente inclusivo e non estrattivista o gerarchico. Usano la parola holobient, che dichiarano come “il punto di vista di un’entità fittizia inventata per sottolineare che tutti gli esseri, entità, fantasmi e creature del nostro pianeta, sono tutti imparentati e intrecciati, tutti corrispondiamo tra loro”. Ambientata, quindi, in una zona del parco Karlsaue sottratta all’intervento dell’uomo in cui trova dimora un enorme compost all’aria aperta, l’installazione evoca un paesaggio immaginifico ma reale, un luogo dimenticato ma vivo, capace di portare il pubblico verso un altrove poetico, in un futuro che sembra riprendersi da una qualche avvenuta apocalisse. La ‘temporary home’ è un luogo circondato da materia vivente progettato per leggere, scrivere, discutere e contemplare, che nei mesi di incontri in situ si è trasformato in un meraviglioso archivio che proprio sul processo di fiducia si basa, aprendosi al pubblico e mostrando appunti, disegni e vita di un attimo appena trascorso o fermo in un tempo dilatato, senza fine. Qualcosa è avvenuto, ma non è dato sapere quando. Chi sono gli abitanti di quel luogo? Potranno tornare? Uniche tracce rimaste sono un libro e un dipinto che sembra raccontare il mondo com’era o come potrebbe essere. Tracce che sono un punto di inizio per qualcosa di nuovo e possibile. Un invito al futuro: ‘trust the process’.
EN | Researching living archives, 2021
Words by Alice Pedroletti for HerMap Project Iran
As defined by film and video curator Stefanie Schulte Strathaus, in her book Living Archives – Archive Work as a Contemporary Artistic and Curatorial Practice, published by the Arsenal – Institute for Film and Video Art: Living Archive discursively combines research, preservation and the publication (...) with an artistic and curatorial practice of the present. The projects deal with the archive in a way appropriate to our times (...) generating something new and creating access points.
By offering new perspectives and narratives, the artistic works presented on this website us to rediscover cultural heritage in Tehran, particularly industrial heritage and archives. This specific context allows us to take a new look and a renewed perception of heritage without losing its intrinsic qualities.
Below, the artist in residency, Alice Pedroletti, describes her perception of the term Living Archives:
AP: When I speak about Living Archives, most people look at me strangely, as if I were addressing something incomprehensible. In fact, archives are always alive; they are simply often at rest.
To me, the difference between alive and living lies in how we decide to humanise the archive instrument.
While the two terminologies suggest the same thing, Alive can be used as a metaphorical term, better suited to a more abstract or even poetical approach. Living rather means typically life: with its flow, its endurance, its survival. It generally refers to the natural being destined for a predefined cycle. It also reminds me how necessary it is to rethink the Archive itself: like a body that grows and ages, the Archive changes and should change. But unlike a body, it is destined to last.
It survives, carrying the problematic task of recounting history, whatever it may be, by generating doubts and questions about how one should rethink the contemporary archive model.
In any case, for the classical Archive, the centrality of the ‘body concept’ remains fundamental until deprived of its own tangibility, thus becoming Database.
The body is also one of the artists, who works at a distance on a territory without perceiving it directly, but experimenting with the two dimensions: the ‘impossibility of the geography’ and a ‘different but possible geography’. Therefore, the only possible extension is, again, the Database: a tool that by its nature loses the direct centrality of the human person in favour of the machine, aiming to rethink the classical constraints of the Archive, such as nomenclature or coordinates, and transforming a place’s knowledge through other information and open-source models for everyone. A living archive looks to the future, encompassing the risk of not being applied, understood or conserved. Its fragility leaves room for a possible and continued adjustment into something else, proposing a different history, a new archaeology.
IT | Rêverie (‘Nhomiàh), 2019
Testo di Alice Vangelisti
Il progetto Rêverie (‘Nhomiàh – dal dialetto camuno: sognare, sognarsi) fa parte di una serie di lavori che l’artista porta avanti dal 2012, legati al tema della memoria dei luoghi, la quale è letta a partire dalla sua esperienza familiare, con un percorso che inizia così dall’individuo per giungere infine alla collettività.
Ricostruendo i luoghi in cui ha vissuto, l’artista attiva delle ricerche cartografiche “immaginifiche”, legate alla sfera emotiva e sensibile della geografia. Questo le consente di analizzare una serie di aspetti che sovente non sono presenti nei progetti territoriali: sentimenti, ricordi, fantasia, immaginazione, malinconia, poesia, desiderio. Nel caso specifico di Lozio include per la prima volta l’aspetto onirico, ma allo stesso tempo reale e lucido, della rêverie. Questa parola francese non è traducibile direttamente in italiano. La si potrebbe intendere con espressioni come fantasticheria, sogno, chimera, immaginazione fantastica. La rêverie come stato dello spirito che si abbandona a ricordi e immagini, è infatti per Bachelard la situazione in cui l’io, dimentico della sua storia contingente, lascia errare il proprio spirito e gode di una libertà simile a quella del sogno (rêve), in rapporto al quale la rêverie indica tuttavia un fenomeno della veglia e non del sonno (rif. G. Bachelard, La poetica della rêverie, 2008).
L’insieme dei lavori appare come un grande libro suddiviso in capitoli tematici quanti sono i singoli progetti creati. La sua pratica è attraversata dal principio comune dell’archiviazione che racconta la frammentarietà dei luoghi indagati: del resto l’archivio stesso, per sua natura, è denso di frammenti di vite che combinati costruiscono altre storie diverse, come delle nuove architetture.
In Rêverie l’artista parte da un sogno ricorrente, che ormai sta perdendo nella sua stessa memoria. La narrazione è stata ricostruita unendo il ricordo della sua infanzia trascorsa in Valle Camonica a quella incerta, anche se reale, vissuta per anni nella ripetizione del sogno. Sempre facendo riferimento al tema della frammentarietà e dell’archivio, l’opera è quindi composta da una serie di interventi souvenir che possono essere letti singolarmente, ma che solo nella loro globalità divengono significativi dell’intera esperienza dell’artista.
Le fotografie-cartoline acquisiscono un carattere materico e scultoreo nella loro installazione: il porta-cartoline, per l’artista un oggetto-scultura del quotidiano, racchiude le fragili esplorazioni stranianti del territorio, in cui la fotografia non è più intesa come elemento documentativo, ma diviene un mezzo narrativo al pari della parola. Alle cartoline si somma una scultura realizzata con una piòda (dal dialetto: una pietra molto sottile utilizzata per la costruzione dei tetti) in cui l’artista inserisce una delle lenti da lei usate per il lavoro. Ognuno può quindi crearsi una propria visione del paesaggio montano che si intravede all’esterno della Casa-Museo della Gente di Lozio, il quale può essere così inteso e letto in maniera frammentaria e composita. Un oggetto che va a comporre un’archeologia per il futuro: in un Museo legato al passato l’artista inserisce un nuovo strumento di lavoro per il territorio, mimetizzandolo e lasciando che lo stupore del trovarlo attivi quindi la nostra immaginazione (rêverie). A questa lettura visiva, si integra infine una nuova bòta (dal dialetto: storia, racconto) che nasce dal sogno dell’artista e che prende forma scritta grazie alla collaborazione della comunità. Da questa sono state estrapolate alcune frasi, poi trascritte sotto i balconi della frazione di Villa: un intervento che permette di guardare il paese con il naso
rivolto all’insù, come per ammirare le alte vette che dominano l’abitato. Una traccia tangibile di questo sogno, destinata a svanire, di cui la traduzione in dialetto è elemento “esotico” che l’artista si porta via, ma che allo stesso tempo regala alla comunità come nuova memoria per il futuro.
Un lascito che è quindi souvenir stesso della sua presenza-assenza. | EN | WORK
IT | Azioni per un paesaggio (A, B). 2019
Testo di Alice Pedroletti
Ho lavorato con Photoshop manipolando l’immagine di partenza con diverse azioni .
In quello che vedo non esistono passato e futuro, ma solo ciò che osservo. Il paesaggio è ferito da diverse architetture inserite con violenza, sia nella presenza che nella loro assenza. Architetture aliene al luogo ed imponenti, ma che risultano poi fragili. Mi sono domandata come risolvere quella visione spezzata e disarmonica.
Ho isolato gli elementi “cielo”, “collina”, “ponte spezzato” e li ho spostati in modo da riempire quel vuoto visivo con un’architettura naturale, lasciando l’immagine apparentemente inalterata. Ho poi ripulito l’immagine da ogni segno di polvere della scansione, fino all’ultimo granello, come in un rituale sacro. Opposto a questo primo esercizio sul pieno, c’è il tentativo vuoto di ricostruire l’idea di ponte attraverso i due elementi isolati dal paesaggio e riuniti nello spazio del foglio. Quello che manca è tutto: a sottolineare come l’origine stessa di architettura vada ripensata, soprattutto quando diviene oggetto di funzione e non elemento di unione.
In occasione della OPENCALL Filling the absence a cura di Pinksummer (Genova). Una mostra con lavori di Yona Friedman e Peter Fend. A cura di Andrea Canziani ed Emanuele Piccardo, con il contributo di Elisa R. Linn e Lennart Wolff.
Qui le immagini della mostra. Courtesy: Pinksummer.
Nel 1973 Gordon Matta-Clark, invitato a Genova dalla galleria Forma, realizza uno dei suoi primi interventi di cutting legale: A W-Hole House. L’artista trasforma l’architettura di una casa abbandonata a Sestri Ponente, poco lontano dalla Val Polcevera e dai quartieri di Sampierdarena e Cornigliano, in una anarchitettura, che vorremmo intendere qui, innanzi tutto, come un’azione di interruzione del pensiero convenzionale. “Anarchitettura è fare spazio senza costruirlo” – scrive Matta-Clark – “Anarchitettura aggiunge una nozione di eventi non materiali… L’anarchitettura è più vicina al perfetto gioco dei vuoti …”. A coloro che parteciperanno a questa call si chiede di lavorare con l’assenza ed eventualmente di riempirla. Si tratta di una provocazione elusiva, non cinica, ci piacerebbe che il ponte crollato, come la casa del progetto di Matta-Clark A W-Hole House, diventasse, con il suo grande cut, una struttura anarchica, priva di senso univoco, al di là di ogni confine dogmatico, con una sua propria bellezza spaesante atta a ricevere un’intrusione fuori da qualsivoglia consenso paternalizzato e paternalizzante. Lavorare in assenza e con l’assenza, è dialogare con qualcuno o qualcosa che avrebbe dovuto trovarsi in quel luogo, o che è stato in quello specifico spazio per un certo tempo. Vi si chiederebbe di lavorare ossimoricamente con una presenza/assenza, nell’intento forse di provare a abilitare una mobilità (dialettica?) diversa. Significa, per noi, immaginare che si possa ridistribuire una massa, carica di tensione e forse anche di ambiguità, per trasformarla in uno dei futuri possibili. L’assenza, a livello neurologico, è una fugace sospensione della coscienza, una crisi improvvisa, di cui poi rimane l’impressione che sia accaduto qualcosa di profondamente anomalo (assurdo?). Vorremmo che il taglio del viadotto sul torrente Polcevera lavorasse insieme a voi, invitandovi all’intrusione, ospitando le proprie trasformazioni, come se il fisico e il concettuale si adagiassero sul medesimo istante dentro a una “presentologia” liberata, magari da un soffio improvviso della democrazia, dal tempo sequenziale. Ciò che perverrà entro il 15 marzo sarà mostrato alla galleria Pinksummer nel contesto della mostra Filling the absence di Yona Friedman e Peter Fend, ispirata alla simbologia di un ponte, che precipitando ha manifestato tutta la pericolosità di un artificio atto a conciliare perché per dirla con Georg Simmel di Ponte e Porta “Soltanto l’essere umano di fronte alla natura possiede la capacità di unire e di dividere” rendendo la vita forma.
IT | ISLANDISH. A cura di Emmanuel Lambion. Istituto Italiano di Cultura, Bruxelles. 2018
Estratto dal catalogo. Testo di Emmanuel Lambion.
Alice Pedroletti, fotografa e artista visiva, studia da molti anni il rapporto dell’uomo con il proprio territorio, la memoria individuale o collettiva, che essa sia sepolta o, al contrario, viva e attiva, con un interesse specifico per i luoghi abbandonati dove la natura riafferma i propri diritti o, all’opposto, per quelli completamente rimodellati e trasformati dall’uomo.
Il suo interesse per i concetti di vuoto e di assenza, o piuttosto di presenza in negativo, e l’idea di una dilatazione della dimensione spazio-temporale l’hanno portata a sviluppare una
ricerca particolare sul concetto di insularità. Particolarmente attratta dalle isole (semi) abbandonate dall’uomo, conduce, da diversi anni, una ricerca sulle floating islands, che l’ha condotta a candidarsi e a essere prescelta per la residenza a Comacina e, più recentemente, a recarsi a Rabbit Island. In particolare, la storia movimentata dell’isola Comacina, rasa al suolo nel 1169 su ordine del vescovo di Como, l’ha portata a immaginare il rovescio della medaglia di queste pietre, di questa storia, di queste storie sepolte nel lago, e a considerare l’isola come la parte emersa e visibile, sul pelo dell’acqua, di un’entità più grande, diacronica e transtorica.
L’installazione qui presentata, Go with the flow. Study for a floating island: searching for an entrance, trying to float, utilizzata tra l’altro per la cartolina d’invito, ripercorre in modo plastico, seguendo i contorni dell’Isola Comacina, il suo archivio dei lavori sulle isole galleggianti, al cui centro si situa l’idea di un’isola, di una pietra o di una massa senza peso, come lo sono, in modo relativo, secondo una scala più o meno grande e inclusiva, tutti i corpi, sottomessi alla forza di gravità, ma anche galleggianti nell’immensità dello spazio, sebbene sempre collegati a una memoria, a una materia o a uno spazio-tempo che li ingloba. Delle pietre galleggianti, create dall’artista in cemento alleggerito, sono integrate al dispositivo e sembrano evidenziare, in modo metaforico, l’artificialità concettuale di quest’idea di galleggiamento o isolamento. | FR | NL | WORK
IT | Georgina Starr, The Lesson Pinksummer Goes to Rome
Testo di Alice Pedroletti. ATPdiary pubblicato il 04.01.2017
C’è una cosa che mi piace dell’Arte: quando riesce a farti ricordare qualcosa di te stesso che pensavi di aver dimenticato. Ancora di più amo un artista, o la sua opera, quando ci avvicina e mette in relazione con quello che ci circonda, quando spesso ce ne dimentichiamo. E’ così che ci ricordiamo di un fatto che si è magari ripetuto per anni; un evento casuale, un odore abbinato a un colore o un gesto, un suono che nel ricordo hanno un significato e che scopriamo poi averne tanti altri. A volte il ricordo nasce semplicemente da un’associazione di idee che da un punto, e senza seguire per forza una retta, ti porta a un altro punto, lontano, perso.
Un punto prezioso, intimo, decisivo, ma dimenticato nel tempo, sotto a strati di estetica ricorrenti, dialoghi ridondanti, riflessioni opache, pigrizia.
C’è una trasformazione in questo riaffiorare, un nuovo significato che si aggiunge al precedente. E’ come un respiro, quando si nuota e si cerca un ritmo, il proprio ritmo, che si impara ad ascoltare e ad applicare solo con tanta pratica, esercizio, disciplina.
The Lesson, la mostra di Georgina Starr a Pinksummer Goes to Rome è uno di quei punti di cui parlo. E’ un ricordo collettivo, che unisce le persone sotto un gesto materiale e quasi scientifico, la creazione di una bolla partendo da una materia elastica, lasciandole libere di ricordare se stesse e di relazionarsi ad un messaggio: quello dell’artista. E’ anche un ricordo intimo e personale, che assume significati individuali, fondendosi con un ambiente surreale – di soli due colori – in cui la condivisione del pensiero avviene anche senza la parola. Siamo parte di un tutto che ci avvolge, mentre il lavoro manifesta un’idea. La parola che sembra mancare si materializza in forme temporanee: le bolle sono in dialogo tra loro e con noi, con quella parte dimenticata, con quella ancora bambina, con quella che scopriamo li.
La galleria diventa spazio protetto, morbido agli occhi, in cui entrare è il gesto delicato che ci fa guardare le cose senza fretta, come rallentati da una riflessione più ampia, che coinvolge anche il corpo, soprattutto il corpo. E’ un lavoro politico quello che viviamo, nel senso più alto dell’esperienza politica femminile e che possiamo oggi provare, non ri-provare. Non c’è retorica, piuttosto poesia. Una poesia forte, in cui il femminile è deciso, senza essere violento. C’è ironia, c’è gioco, c’è leggerezza. La stessa delle bolle che si ripetono una dopo l’altra, nel tentativo di raccontarci un respiro, una nascita, un esercizio. E’ un mondo sospeso quello della Starr: in un tempo impreciso, che dai video si espande ai disegni e che assume una forma conosciuta – ma sconosciuta – nelle “sculture”, che ribalta la percezione delle scenografie nella galleria stessa, fino al suono, che richiude il cerchio della sospensione e che suggerisce un mondo parallelo, magico.
Cosa è reale? C’è una ripetizione che incanta, incuriosisce.
E’ un mondo di donne, di generazioni, di bellezza, di conoscenza.
E’ sempre difficile usare la parola “bella” quando si parla di una donna e lo è anche quando si parla di Arte. Quando le due cose coincidono è ancora più complicato. Come è complicato parlare oggi di femminismo. Georgina Starr lo fa. Confondendo l’estetica, coinvolgendoci liberamente senza conoscere il nostro pensiero a proposito, costruendo una narrazione che tocca la scienza attraverso la poesia dei colori. E’ così che definizioni prettamente tecniche assumono un significato quasi romantico perchè alleggerite del loro essere tipicamente maschili, grazie alla sua voce che ce le racconta una dopo l’altra. “Volevo fossero in italiano e volevo fosse la mia voce” mi ha detto. Un’opera che richiede esercizio, dentro a un’opera che racconta di un esercizio, dentro ad una stanza che diventa anche scenografia, in uno spazio temporaneo di una città che ha vissuto tutti i tempi del mondo.
Come in una matrioska, una bambola scatola che si apre con la figura “madre” e si chiude con la figura “seme” portando dentro di se diverse emozioni e conciliando i contrasti del dentro e del fuori, aprendosi e chiudendosi, ogni volta rompendosi e ricreandosi, moltiplicandosi come in una eterna rinascita.
EN | A
Text by Alice Pedroletti
The Institute of Things to Come. Workshop with Kapwani Kiwanga. Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Turin, Italy. 2017
Curated by Ludovica Carbotta and Valerio Baglivo.
There’s a dog with a missing leg.
Somewhere else there’s a leg with a missing dog.
In both cases something is missing, creating a space in between the two parts that don’t have a specific time or a specific role.
I will call that space “A”.
Between us and the surrounding world – simply intended as a composition of objects, plants, architecture, animals, and humans – there are always empty spaces where nothing happens, no one lives, silence is the main noise, gender is not defined. An organic architecture that modifies itself while we change, that changes while we evolve. Empty spaces filled with neutral information: utopian landscapes resulting from the removal of everything that affects us both physically and morally. Spaces proceeding from shadows, leftover objects, and displays. Immaterial artifacts from an undiscovered past, imaginary keys for an imaginary future, but also neutral spaces because they are immaterial to our present. Missing pieces from unknown statues, fragments of someone’s life. Are those pieces lost in the past because we don’t see and posses them in our present? Where are they attached to what we are considering missing part in this present? Is this border real?
The “A” space is the residual space: a place between what we feel and don’t. Lines crossing a certain time, in movement, undefined.
The letter a, in grammar, represents one or something. It’s the first letter of the alphabet and in Italian, as in other languages, it’s a privative prefix that changes the meaning of the word to its opposite. In English a is an indefinite article, it doesn’t have any connotation. The “A” space then is missing something, because lost or taken. It also initiates something, marks a beginning because of its position. The privative condition then becomes the beginning of a new undefined status; as in photography or sculpture, the negative is both matrix and subject, depending on the point of view. This organic, undefined and immaterial architecture is both empty and full of meanings and possibilities. It draws shapes without a previous idea of them.
EN | FRIGIDO. LIFE OF AN ARCHIVE. Project by Alice Pedroletti. Curated by Cristina Baldacci. Frigoriferi Milanesi, Sala Carroponte. Milan, Italy. 2013
Text by Cristina Baldacci.
There is something uncanny in Frigido which does not only concern the sense of cold, detachment, and indifference as evoked by the title. It is the emergence of that fear which is renewed every time we find ourselves to be involuntary and helpless witnesses of the destruction, of the diaspora, of the totalitarian control of an archive, and with it the cancellation, partial or total, of the memory. The “archive fever” which echoes in the personal damnatio memoriae operated by Alice Pedroletti is nevertheless only temporary, since the act of destruction does not mark an end, but a rebirth. Consciously and systematically, the artist-photographer frees herself of the images that she has produced and preserved over the years by immersing them in liquid nitrogen molds, which, together with helium, is one of the most effect refrigerants. The extremely low temperatures at which the negatives are exposed – nearly two hundred degrees below zero – produce a stiffening of the material, which, once extracted from the nitrogen, becomes particularly crumbly or friable (the strategic use of cold, here carried to the extreme, is also a reversal of its usual employment in the preservation of film and photographic prints). With the complicity of the case, Alice proceeds to chip manually at the negatives removing any possibility of reproduction of the image, almost every trace of figuration and above all, the tangible proof of part of her experiences and her old photographic work.
This decisive and radical action, in addition to having a cathartic value, shifts the focus from the image to its support, from the scope of vision to that of the material. The artist does not produce new images, but object fragments of various dimensions and colors, that, although, in some cases, may even create the illusion to postpone a “lost” reality to a faded or broken memory – especially when in the fragments isolated figurative details distinguish themselves –, take on a brand new meaning as evidence of the artistic process. To these microscopic objects, Alice relies on the task of handing down another memory: no longer the shadow of people, places, and past experiences, but the concrete sign of her daily work, an approach that from photographic becomes almost sculptural. The freezing and breaking of the negatives are accompanied by a scrupulous analysis. Halfway between scientist and amateur chemist, Alice experiments and takes notes, recording even the smallest change and discovery. She then proceeds cataloging fragments, which follow neither a chronological order (given by different phases of her work) or conceptual, but uniquely formal. All the pieces, with a few rare exceptions, including those specks that, even if not classified, certify the metamorphosis of the material, are meticulously arranged. One at a time or in small sets, they are divided into packets, frameworks, and frames depending on the size, from a maximum of three centimeters to a minimum of one or half a centimeter. In this manner, the artist, on the traces of her first archive, progressively builds a second, while also renewing her way of working. Frigido. Life of An Archive is the story, open and evolving, of this unique procedure, of this obsessive drive to the preservation of everything that belongs to the self, even when the driving force appears to be a desire to move away from what it used to be. It is also a revelation of how even the smallest fragment if watched carefully, as if through a microscope, or projected and enlarged on a wall, may give rise to unexpected visions, suggestions, and connections. | IT
EN | Frigido. Project by Alice Pedroletti. Curated by Cristina Baldacci. Frigoriferi Milanesi, Sala Carroponte. Milan, Italy.
Text by Alice Pedroletti.
I chose the cold (frigidum) as an idea of definitive immobility of the fracture with the existing form. The cold is no longer something from which one has to or can protect themselves from, but something to confront. Frigido is the thought, the memory, the moment in which the pain of emotion makes us grow. Frigido is the separation, the break from the past.
I work with liquid nitrogen because it produces a surprising molecular alteration. Once plunged into the nitrogen, an object (in my case a negative) “freezes” and breaks in a forced and irreversible way. It changes essence and meaning and takes on a new form. As a photographer, I recount in pictures something that passes and fades over time. In a path of continuous growth, I leave behind situations, emotions, encounters, people, feelings, places, and memories.
My memory is like an amplifier that makes what is personal becoming universal. Therefore, in my archives, negatives and slides are never really truly chosen and ordered, but spread around absently, without dates, only with a generic designation for the subject, in boxes, envelopes, and trays. It is a set of memories to be preserved, but also to be let go. There are things for which to reserve space, while others for which to make space. Always, though, too many things, little space, and even less time. Past events to forget, however, that are still physically present. I want to change them into something different. I want to exceed the limit represented by thought, memory. I want to transform. I do not want to reopen boxes any longer. I am not required to remember everything. I want to learn. When photographing something, there is an instinct that I cannot explain, a fast action, sometimes too fast. An attraction to something that I see: colors that speak to me, or a light that makes it impossible to look away. Something magical that remains frozen in small objects seemingly fragile. Here’s how an archive is born: one after another negatives and slides build lives and events. Yet, no one touches them, no one sees them. They are the hidden protagonists of the history of each one of us. They are the matrix, the idea, the thought. It is printing (the medium) that reveals the form that renders them visible. Destroying them is for me an act of violence, of pain; A denial of myself and, at the same time, a liberation.
I’ve often asked myself what photography is: a language, a vocabulary, an alphabet, a connection with the outside world. As with any long and deep relationship, there comes a moment in which the detachment is necessary. You grow up and take your own road, you move away from your family to create this path, to be independent. To me, photography is a relationship (connection) that is closed and reopened by new forms, and first of all, through a breakage.
This project deals with my relationship with art and images. It departs from a place – the archive – in which the photographic image is conserved through the cold. In this process, the link between subject and artist is overturned. When creating an image, the instinct is human, while the technical action is mechanical. When you destroy (to recreate), the instinct belongs to the subject, while the artist’s actions become technical, a cold procedure. In both cases, there is something that remains without control: Time.
Maybe that’s why, now, I have decided to re-build my archive. | IT | WORK
Frigido. Video backstage here .
EN | PLACE to PLACE. Curated by 20° Corso in Pratiche Curatoriali and A+A Gallery, Palazzo Malipiero. Venice, Italy. 2014
Text by Sofia Francesca Miccichè & Giorgia Noto.
Memory is an essential character of identity and the search for identity, collective or individual, is today a fundamental activity of individuals and society. The evolution of the modern world toward mass systems of communication has a pursuit to create a coexistence of collective memories that renounce a linear temporality in favor of a multiplicity of lived times, where “the individual is rooted in the social and collective.” A story that is also written by starting from the collective memory, “topographical places such as archives and libraries and museums; monumental places, such as cemeteries and architectures; symbolic places such as commemorations, pilgrimages, anniversaries or emblems; functional places, such as manuals, autobiographies, associations: these monuments have their story.” Milan artist Alice Pedroletti opens the first room of Palazzo Malipiero with the delicacy and power of memory. From the roots of an intimate private memory, she goes back in order to rebuild, piece by piece, inch by inch; the physiognomy of a complex and transformed lake landscape. Senza Titolo is an installation in progress, which evolves through time, supplied by the memories and objects that structure the landscape. They are, at the same time, objects of affection and precious relics of ancient collective memory. The inner place, where the emotion of a parental bond between the artist and her grandmother resides, becomes the opportunity to draw the boundaries of a real geographical area: the region Piedmont, between Novara and Verbania, where Lake Orta is located; a region that has undergone transformations and changes due to the establishment of the textile factory Bemberg in 1927. The artwork, due to the might of the proportions and the expressive power of the elements that are composing it, captures the glance of the visitor: a monumental collage of photocopied sheets of paper that covers the entire surface of a wall of the exhibition space. In front of the work, like in an archive space, there is a table — a reliquary where the artist has scientifically arranged some items that belonged to her grandmother during the time she worked. A mosaic takes form — which turns out to be a picture, taken from the top of this landscape in constant evolution and the remains of incessant caring documentation by the artist. A hybrid dimension that smoothly oscillates between the faithful reconstruction of these altered areas and the inserts of memory, which are modeling the territory through the morphology of feeling. A vision that acts as a contrast to that formidable geographic map is when the artist combines a small diptych of two photographs of her grandmother and the artist herself while they are bathing in the lake. The position of the two swimmers is similar. Even the similarity of the faces is underlined in order to emphasize the meaning of this work, which fluctuates into the large from the small, which moves from inside to outside, which finds the universal in the particular. It is a hazard synthesis between what belongs to us as individuals and what interests all of us as inhabitants of a place that changes in front of our eyes. | WORK
EN | THE CLASH
Text by Alice Pedroletti
Performance The audience was invited to solve the puzzle without any image or reference to it.
While solving the puzzle we build a relationship, reversing the meaning of the final phrase. Shanghai, China. 2016
Can you really learn to speak another language?
Always, the first thing I wonder when I talk to someone who is not Italian mother tongue is what and how my language looks and sounds from outside.
How many shades are hidden between the lines and the meanings of phrases we say and how can a person get to understand them without being born in that same culture in which during the centuries my language has developed. I do not think it’s possible, that’s my answer. Rather, I believe that we can learn to use a language to the best of our own abilities and sensitivity. Respecting the technicalities, customizing the use of grammar, changing the classic expressions to express our particular personality, being able to jump from expressive ‘professional’ formalities – when needed – to a more free and honest way to speak – when we are just ourselves. To speak a foreign language you must be brave and determinate.
It’s not about the wrong grammar or phonetics that you can accidentally use – that can be pretty common even if you are mother tongue. It takes courage because it exposes a very personal and intimate part of the individual, pushes him to get out of his cultural certainties, makes him trying to communicate through something different. It is common to speak English, but English is not the native language of the world. It’s a convention, a legacy of the convenience of recent history. Despite this, each language – thankfully – carries inside cultural aspects that distort the use of English, making it only ‘one language in the world’, not ‘the language of the world’. It’s a chosen language, in fact, but does not replace the others, rather in support of worldwide communication.
In these two works, I show sentences extract from a dialogue between three people where communication is made difficult by their different backgrounds. English, the mother tongue of one of them, becomes an instrument to determine how the other should be and behave. It’s used by the second person to determine the concept of ‘social’, which seems to be the only right way to talk to someone. Both phrases in the language of the third person involved are aggressive and rude expressions, in opposition to the common education.
The background image is ambiguous: we can see a car, probably involved in an accident. It’s not clear what happened, we could only try to understand or imagine. Is that a clash? Are we sure?
In recreating the puzzle one to one, the artist and the audience attempt to reconstruct something, without knowing what. A dialogue without words, talk is not needed: the goal is to get together and imagine, in any or no language.
IT | AORISTO o Sul tempo.
Testo di Alice Pedroletti.
Realizzato per la pubblicazione Metodo Salgari – Piazza Salgari 6/2014 .
Progetto ideato e curato da Andrea Balestrero, Nina Fiocco, Rogelio Sánchez Velázquez.
Sono in ritardo. Come al solito di corsa, riesco poco ad organizzare i miei spostamenti.
Appena ne decido uno qualcosa succede, accade, avviene e tutto ne risente. Come una biglia rotolo da una parte e dall’altra e la catena delle cose da fare si aggroviglia su se stessa. E così mi ritrovo con una matassa di pensieri in testa e una catena di eventi addosso e io che cerco il capo da tirare per sciogliere i nodi, da una parte e dall’altra. Senza quel principio nulla filerà liscio e quindi scavo, cerco, indago. Faccio buche come un cane al parco, mi inoltro in tunnel bui come una talpa e mi addentro nel buio come un gufo nel bosco. Per distrarmi immagino mondi avventurosi, dove il mio gatto bianco mi fa da guida e penso che forse ogni Alice ha una guida, a volte coniglio, a volte gatto, chissà che animale sarà nella prossima vita? Chissà se sarò ancora Alice nella prossima vita. Forse potrebbe dipendere da quante cose riuscirò a fare in questa, allora forse se non le faccio tutte potrei tornare per finirle?
Che invidia quelle persone che fanno poche cose nella vita e ci si concentrano così tanto da farle così bene che non ti sembra vero le abbiano fatte. Quella cosa che si chiama scopo della vita, uno solo però: chiaro, preciso, determinante. Mi torna in mente quel posto dietro la vecchia casa dei miei nonni, quel distributore di gas metano. Il proprietario vive li da vent’anni e sta costruendo la sua casa in Albania, un pezzo alla volta. Mi aveva anche fatto vedere le foto, una casa normale, una villetta familiare in cui un giorno vuole tornare. Però intanto vive qui, in un posto senza tempo con colonne greche e pappagalli in giardino, alberi tropicali, rovi di rose e aromi del mediterraneo. Ha pure l’orto.
Ecco, lui ha uno scopo: costruire la sua casa. E lo fa a distanza, in una relazione con lo spazio e il tempo che è davvero dilatata, almeno ai miei occhi.
Io con il tempo ho un sacco di problemi. Intanto scorre come un liquido ma non lo si può vedere, il che mi rende decisamente nervosa. L’acqua per esempio la vedi, la senti la tocchi, noi siamo fatti d’acqua. Scorre velocissima, anche più del tempo, occupa uno spazio e ha un volume, insomma l’acqua è quella cosa li, vedi?
Il tempo che volume ha invece? Esiste l’equazione che determina il peso specifico dell’attesa?
Che formula algebrica si applica al tempo dei sospiri? E come calcolo quante ore ho passato a piangere? E il volume delle lacrime corrisponde al volume delle ore?
E che spazio occupa il volume del tempo? Sta in una mano? In tasca? O forse solo nella testa di chi riflette? Il tempo è un problema perché manca. Almeno così in molti dicono. A me sembra ce ne sia anche troppo. Quello che davvero manca è poterlo controllare. Se potessi controllare il tempo farei molte più cose. Per esempio dormirei tantissimo, sempre. Poi mi sveglierei e farei svegliare il mondo quando voglio io.
Farei andare tutto ad un ritmo musicale sempre diverso, per non annoiare nessuno. Farei durare la notte di più a volte, così da dilatare il silenzio che si genera mentre tutti dormono. Fermerei tutto quello che potrebbe succedere in un posto quando io non sono in quel posto: un po’ come quando pensi che quando te ne vai tutto svanisce, in fondo se esiste la tua realtà è solo perché i tuoi occhi ci si posano sopra. Insomma se potessi controllare il tempo controllerei il tempo stesso.
Non ci sarebbe distanza nell’amore tra amanti lontani perché non sarebbero più lontani, non servirebbero più ore per raggiungere un luogo perché ogni luogo sarebbe li, o qui o forse dietro il primo angolo. E non si crescerebbe più perché non ce ne sarebbe bisogno. Crescere è dare un senso al tempo che scorre e che non possiamo vedere, che misuriamo con le rughe di un viso, il colore dei capelli di un genitore, gli avvenimenti della vita di un amico. I figli, il matrimonio, un nuovo lavoro appaiono nella vita di ognuno di noi come palazzi in città, centri commerciali in periferia, autostrade più larghe, ponti più lunghi, treni più veloci. Antropizzazioni geografiche e di vita. Il tempo l’uomo lo misura con l’evoluzione, a volte tecnologica, a volte sociale.
Ma in fondo, resta sempre quella cosa senza un volume, che inseguiamo, che ci fa restare in attesa per ore o per anni senza certezze, anche se oggi pensiamo una cosa che potrebbe non valere più nulla quando quel tempo senza un volume, sarà passato.
Se potessi controllare il tempo lo regalerei come un oggetto prezioso, per fare uno scherzo, sapendo che in realtà, in se, il mio tempo non ha prezzo e non è prezioso, senza di me.
Il tempo, che rogna. Non si può costruire ne distruggere, si può misurare in lungo, largo, alto e basso perché non ha una forma, non lo vedi ma lo senti, lo senti ma non sai come, ha la forma di un quadrante ed è fatto di numeri così che lo si possa provare ad ingannare, ma il tempo è anche nella parola, è ovunque! Passato, presente, futuro, perfetto, imperfetto, prossimo, anteriore, semplice, indicativo, remoto, perso. Come si perde qualcosa che non si possiede? Lo voglio! Per poterlo buttare. Se fosse una persona ci potrei litigare. Già. Con il tempo ho dei problemi, perché è una relazione a distanza. E io non sono brava per nulla, con le attese e le distanze.
IT | La visione possibile
Testo di Sibilla Zandonini per TEMA Project Room.
OPS . Un progetto di Alice Pedroletti, realizzato grazie al supporto di Movie People, FaMa e Byblos Collection.
Nel 1928 Renè Magritte dipinse il famoso “Il falso specchio – Le Faux Miroir”, nel quadro si vede un occhio in primo piano nella cui iride è riflesso un cielo nuvoloso e la pupilla nera fluttua nel mezzo, come fosse un sole eclissato. Nel titolo il pittore surrealista racchiude il significato profondo dell’opera, semplice solo all’apparenza. I nostri occhi funzionano come specchi, ciò che si riflette nella nostra iride è ciò che vediamo, è dunque una porzione di cielo ciò che sta osservando l’occhio?
Eppure guarda fisso di fronte, ma noi non vi siamo specchiati. Si tratta dunque di rappresentazione dell’anima, del suo mondo interiore rivelato? Così facendo Magritte inficia le nostre convinzioni, la nostra fiducia nell’immagine come verità. Per il pittore belga nell’arte conta il pensiero, non la tecnica; la funziona mimetica della rappresentazione è falsa: la pittura non può svelare l’oggettività del mondo poichè vi è sempre un elemento soggettivo che la influenza. Un’intuizione questa che, applicata alla fotografia, appare dirompente.
L’inganno fotografico in Ops. fa il doppio giro, la fotografia si fa immagine in movimento mentre il video stesso diventa il mezzo per fermare un istante e le soggetività che entrano in gioco sono quella dell’artista, dell’occhio e infine la nostra. L’occhio che ci troviamo a fissare ancora una volta non riflette la nostra immagine.
Sappiamo che quell’occhio appartiene ad un volto, ad un corpo, potrebbe essere il nostro occhio, quello del nostro vicino, eppure, osservandolo, pare sia intento in una battaglia propria. Un organismo unicellulare osservato al microscopio, una particella di plancton che si muove in un mare rosaceo e l’effetto poetico che ne scaturisce è sconvolgente. Ci troviamo di fronte ad una tale libertà di prospettive che in un solo occhio ritroviamo la complessità e l’eterogeneità dell’intera vita. Lo spettatore smette così di essere osservatore per diventare una macchina re-agente, diventa portatore del messaggio dell’occhio in un modo anche fisico. Il corpo attorno all’occhio ha poca importanza, in quanto immobile, ma i pensieri, i desideri che lo muovono sono vivi, sono reali e lo spettatore è il mezzo per uscire dalla condizione di impossibilità. Siamo noi a riflettere l’occhio che ci fissa.
Testo Alice Vangelisti
Resti solitari, testimoni labili di una vita passata, sono ricuciti all’interno di un rinnovato archivio dell’esistenza, raccontata in un viaggio attraverso “architetture” di una memoria cancellata e ricomposta, dove il senso del frammento diviene l’essenza stessa della narrazione. Questa è l’anima di Frigido che parte proprio da qui: un archivio distrutto in maniera sistematica, consapevole e “fredda” da Alice Pedroletti, evocando l’ombra dell’inevitabile fine che ogni inizio porta perennemente con sé. Ma in questo caso, l’artista, lottando contro l’oblio e la cancellazione di memoria, dà vita a una nuova visione
della sua personale esistenza – che in senso lato diventa universale – producendo un mondo sospeso tra il reale e l’immaginario in una dimensione di sfumature e ambiguità. Il tutto è reso possibile grazie a un’azione radicale: l’azoto liquido irrigidisce le pellicole dell’archivio dell’artista, che diventano così fragili da permetterle di spezzarli con le dite in piccoli oggetti, che ne fanno perdere qualsiasi senso dell’unità originaria. Ma ecco che allora da questo suo procedimento, ripetuto centinaia di volte come a voler governare il destino, prende vita un tessuto narrativo, ricco e complesso: il frammento diventa astrazione, memore di un passato ormai “infranto”, certificando in qualche modo il carattere transitorio e mutevole della nostra esistenza. L’artista ci mostra così come il passato non è mai lineare o definitivo, ma piuttosto lo dobbiamo intendere come una collezione in fieri di piccoli pezzi. Questi risultano qui catalogati sistematicamente all’interno di un archivio rinnovato, privo però di qualsiasi immagine o riferimento visivo a quello precedente, evocando allo stesso tempo una riorganizzazione e reinterpretazione dei ricordi in potenzialmente infinite configurazioni. Così facendo Pedroletti ci invita a riflettere anche sul concetto stesso di memoria e identità, ma anche sulla natura mutevole della nostra percezione del passato e su un processo di incontrollata distruzione dello stesso, ricordandoci nuovamente i territori labili della condizione umana. Quello che sorge è allora una sorta viaggio emozionale e psicologico in cui il senso del tempo in qualche modo viene annullato, le frontiere tra reale e immaginario si confondono e nascono nuovi spazi ordinati all’interno di un labirinto di memorie e sensazioni, le quali ci inducono a esplorare ancora più a fondo il significato stesso della nostra vita. [Estratto dal catalogo Così è la stirpe delle foglie].
IT | documenta 15: una riflessione collettiva, 2022
Una visione collettiva su documenta 15. A cura di Alice Pedroletti e Alessandra Saviotti. Testi di Lucrezia Calabrò Visconti, Fabiola Fiocco, Alessandra Saviotti, Elvira Vannini, Alice Pedroletti, Aria Spinelli, Marianna Liosi, Lucia Veronesi. Parte 1 – Parte 2 .
Introduzione di Alice Pedroletti, Alessandra Saviotti.
In questo particolare anno, ad una Biennale di Venezia che ha mostrato soprattutto artiste donne e artistə non binariə ha fatto eco una più piccola, controversa e criticata, Biennale di Berlino. La prima segnando un punto importante per la direzione che a gran voce la comunità artistica chiede – inclusività, uguaglianza, attenzione – la seconda decretando la fine della complessa figura dell’artista-curatore. In questa cornice intricata, in un momento storico per moltə di noi impossibile da immaginare fino a un paio d’anni fa, si inserisce documenta fifteen, manifestazione che proprio con questa sua ultima edizione rompe gli equilibri tipici delle grandi mostre d’arte internazionale di stampo occidentale. Dopo averla visitata ci siamo chieste quindi come raccontarne la complessità e la ricchezza a chi non ci fosse statə, cominciando a scambiarci molte riflessioni, consigli, pareri, e speranze. A distanza di qualche mese, abbiamo capito che fosse necessario parlarne con un approccio diverso: non attraverso il solito ‘report’ o la classica recensione, piuttosto con un glossario che fosse sia lessico che emozione, per recuperare una delle modalità di lavoro di ruangrupa, il collettivo che ha curato la mostra. Abbiamo esteso l’invito a condividere le proprie riflessioni ad un gruppo di colleghe ed amiche invitandole a proporre una parola e abbinarla ad uno o più lavori presenti in mostra. Quello che leggerete è un glossario di termini abbinati ad una precisa sensazione di fronte ad un lavoro, o in generale alla mostra, che sottolinea come documenta fifteen abbia attraversato tutti i nostri sensi, non solo quelli prettamente dedicati alla percezione visiva.
Testo di Alice Pedroletti
Parola: FIDÙCIA (trust) | s. f. [dal lat. fiducia, der. di fidĕre «fidare, confidare»]
La prima cosa che mi sono appuntata entrando al Fridericianum è stata la parola trust: un senso di fiducia diffuso, che abitava lo spazio in modo quasi organico. Un’entità effimera, un’energia densa che scorreva di porta in porta, di ricerca in ricerca e presente in ogni installazine: in quelle più o meno “riuscite” – secondo una classica visione dell’arte e in quelle inattese e poetiche che per nostra fortuna, in questa edizione di Documenta, hanno occupato la maggior parte dello spazio fruibile.
Una fiducia quasi incondizionata nei confronti del pubblico, considerato in primo luogo come insieme di persone capaci di pensare, partecipare, collaborare, interagire, reagire. Fiducia tra artworkers, educatori, attivisti e verso un’altro pubblico ancora: quello presente nei processi già realizzati in luoghi distanti, ma con noi presenti nelle moltissime immagini, testi e video. Fiducia nel processo stesso di creazione, libero dalla richiesta di produrre un’opera, ma piuttosto di ‘essere opera’, qualsiasi sia la forma finale assunta, materiale o imateriale che sia.
Una fiducia fino all’ultimo giorno riposta anche nelle istituzioni in primo luogo tedesche, ma direi europee, che hanno in parte tradito questo sentimento e questa voglia di creare cultura in modo diverso, riflettendo ai molteplici significati di fare arte come forma di resistenza o sopravvivenza per esempio. Una fiducia che mi ha emozionata e fatta arrabbiare: una richiesta di responsabilità diversa che come singola non posso non accogliere, ma nemmeno in qualche modo soddisfare senza a mia volta avere il supporto e collaborazione di altre persone. Un sistema rizomico che parte tutto da un’idea di fiducia dimenticata, fragile, da preservare e infine salvare; un sistema schiacciato da una politica capitalista in cui moltissime persone non si riconoscono più e che rifiutano, con consapevolezza di voler vivere in modo più libero e sostenibile. Che siano artistə o pubblico davvero a questo punto non conta più.
Artisti | Luogo: La Intermundial Holobiente | Compost Heap
L’installazione di La Intermundial Holobiente, che racconta il processo creativo collettivo della stesura di The Book of The Ten Thousand Things – scritto e curato in modo polifonico tra quattordici artisti e scrittori dall’Argentina -, parte dall’idea di un testo scritto da un’entità non umana con cui scrittori e artisti interagiscono. Per due anni gli argentini Claudia Fontes, artista, Paula Fleisner, filosofa e Pablo Martin Ruiz, scrittore e traduttore, si sono riuniti a scadenza settimanale per pensare a come rispondere, attraverso una metodologia di creazione collettiva, al problema politico della rappresentanza, della autorialità e dell’interpretazione del non umano scegliendo di adottare un approccio radicalmente inclusivo e non estrattivista o gerarchico. Usano la parola holobient, che dichiarano come “il punto di vista di un’entità fittizia inventata per sottolineare che tutti gli esseri, entità, fantasmi e creature del nostro pianeta, sono tutti imparentati e intrecciati, tutti corrispondiamo tra loro”. Ambientata, quindi, in una zona del parco Karlsaue sottratta all’intervento dell’uomo in cui trova dimora un enorme compost all’aria aperta, l’installazione evoca un paesaggio immaginifico ma reale, un luogo dimenticato ma vivo, capace di portare il pubblico verso un altrove poetico, in un futuro che sembra riprendersi da una qualche avvenuta apocalisse. La ‘temporary home’ è un luogo circondato da materia vivente progettato per leggere, scrivere, discutere e contemplare, che nei mesi di incontri in situ si è trasformato in un meraviglioso archivio che proprio sul processo di fiducia si basa, aprendosi al pubblico e mostrando appunti, disegni e vita di un attimo appena trascorso o fermo in un tempo dilatato, senza fine. Qualcosa è avvenuto, ma non è dato sapere quando. Chi sono gli abitanti di quel luogo? Potranno tornare? Uniche tracce rimaste sono un libro e un dipinto che sembra raccontare il mondo com’era o come potrebbe essere. Tracce che sono un punto di inizio per qualcosa di nuovo e possibile. Un invito al futuro: ‘trust the process’.
EN | Researching living archives, 2021
Words by Alice Pedroletti for HerMap Project Iran
As defined by film and video curator Stefanie Schulte Strathaus, in her book Living Archives – Archive Work as a Contemporary Artistic and Curatorial Practice, published by the Arsenal – Institute for Film and Video Art: Living Archive discursively combines research, preservation and the publication (...) with an artistic and curatorial practice of the present. The projects deal with the archive in a way appropriate to our times (...) generating something new and creating access points.
By offering new perspectives and narratives, the artistic works presented on this website us to rediscover cultural heritage in Tehran, particularly industrial heritage and archives. This specific context allows us to take a new look and a renewed perception of heritage without losing its intrinsic qualities.
Below, the artist in residency, Alice Pedroletti, describes her perception of the term Living Archives:
AP: When I speak about Living Archives, most people look at me strangely, as if I were addressing something incomprehensible. In fact, archives are always alive; they are simply often at rest.
To me, the difference between alive and living lies in how we decide to humanise the archive instrument.
While the two terminologies suggest the same thing, Alive can be used as a metaphorical term, better suited to a more abstract or even poetical approach. Living rather means typically life: with its flow, its endurance, its survival. It generally refers to the natural being destined for a predefined cycle. It also reminds me how necessary it is to rethink the Archive itself: like a body that grows and ages, the Archive changes and should change. But unlike a body, it is destined to last.
It survives, carrying the problematic task of recounting history, whatever it may be, by generating doubts and questions about how one should rethink the contemporary archive model.
In any case, for the classical Archive, the centrality of the ‘body concept’ remains fundamental until deprived of its own tangibility, thus becoming Database.
The body is also one of the artists, who works at a distance on a territory without perceiving it directly, but experimenting with the two dimensions: the ‘impossibility of the geography’ and a ‘different but possible geography’. Therefore, the only possible extension is, again, the Database: a tool that by its nature loses the direct centrality of the human person in favour of the machine, aiming to rethink the classical constraints of the Archive, such as nomenclature or coordinates, and transforming a place’s knowledge through other information and open-source models for everyone. A living archive looks to the future, encompassing the risk of not being applied, understood or conserved. Its fragility leaves room for a possible and continued adjustment into something else, proposing a different history, a new archaeology.
IT | Rêverie (‘Nhomiàh), 2019
Testo di Alice Vangelisti
Il progetto Rêverie (‘Nhomiàh – dal dialetto camuno: sognare, sognarsi) fa parte di una serie di lavori che l’artista porta avanti dal 2012, legati al tema della memoria dei luoghi, la quale è letta a partire dalla sua esperienza familiare, con un percorso che inizia così dall’individuo per giungere infine alla collettività.
Ricostruendo i luoghi in cui ha vissuto, l’artista attiva delle ricerche cartografiche “immaginifiche”, legate alla sfera emotiva e sensibile della geografia. Questo le consente di analizzare una serie di aspetti che sovente non sono presenti nei progetti territoriali: sentimenti, ricordi, fantasia, immaginazione, malinconia, poesia, desiderio. Nel caso specifico di Lozio include per la prima volta l’aspetto onirico, ma allo stesso tempo reale e lucido, della rêverie. Questa parola francese non è traducibile direttamente in italiano. La si potrebbe intendere con espressioni come fantasticheria, sogno, chimera, immaginazione fantastica. La rêverie come stato dello spirito che si abbandona a ricordi e immagini, è infatti per Bachelard la situazione in cui l’io, dimentico della sua storia contingente, lascia errare il proprio spirito e gode di una libertà simile a quella del sogno (rêve), in rapporto al quale la rêverie indica tuttavia un fenomeno della veglia e non del sonno (rif. G. Bachelard, La poetica della rêverie, 2008).
L’insieme dei lavori appare come un grande libro suddiviso in capitoli tematici quanti sono i singoli progetti creati. La sua pratica è attraversata dal principio comune dell’archiviazione che racconta la frammentarietà dei luoghi indagati: del resto l’archivio stesso, per sua natura, è denso di frammenti di vite che combinati costruiscono altre storie diverse, come delle nuove architetture.
In Rêverie l’artista parte da un sogno ricorrente, che ormai sta perdendo nella sua stessa memoria. La narrazione è stata ricostruita unendo il ricordo della sua infanzia trascorsa in Valle Camonica a quella incerta, anche se reale, vissuta per anni nella ripetizione del sogno. Sempre facendo riferimento al tema della frammentarietà e dell’archivio, l’opera è quindi composta da una serie di interventi souvenir che possono essere letti singolarmente, ma che solo nella loro globalità divengono significativi dell’intera esperienza dell’artista.
Le fotografie-cartoline acquisiscono un carattere materico e scultoreo nella loro installazione: il porta-cartoline, per l’artista un oggetto-scultura del quotidiano, racchiude le fragili esplorazioni stranianti del territorio, in cui la fotografia non è più intesa come elemento documentativo, ma diviene un mezzo narrativo al pari della parola. Alle cartoline si somma una scultura realizzata con una piòda (dal dialetto: una pietra molto sottile utilizzata per la costruzione dei tetti) in cui l’artista inserisce una delle lenti da lei usate per il lavoro. Ognuno può quindi crearsi una propria visione del paesaggio montano che si intravede all’esterno della Casa-Museo della Gente di Lozio, il quale può essere così inteso e letto in maniera frammentaria e composita. Un oggetto che va a comporre un’archeologia per il futuro: in un Museo legato al passato l’artista inserisce un nuovo strumento di lavoro per il territorio, mimetizzandolo e lasciando che lo stupore del trovarlo attivi quindi la nostra immaginazione (rêverie). A questa lettura visiva, si integra infine una nuova bòta (dal dialetto: storia, racconto) che nasce dal sogno dell’artista e che prende forma scritta grazie alla collaborazione della comunità. Da questa sono state estrapolate alcune frasi, poi trascritte sotto i balconi della frazione di Villa: un intervento che permette di guardare il paese con il naso
rivolto all’insù, come per ammirare le alte vette che dominano l’abitato. Una traccia tangibile di questo sogno, destinata a svanire, di cui la traduzione in dialetto è elemento “esotico” che l’artista si porta via, ma che allo stesso tempo regala alla comunità come nuova memoria per il futuro.
Un lascito che è quindi souvenir stesso della sua presenza-assenza. | EN | WORK
IT | Azioni per un paesaggio (A, B). 2019
Testo di Alice Pedroletti
Ho lavorato con Photoshop manipolando l’immagine di partenza con diverse azioni .
In quello che vedo non esistono passato e futuro, ma solo ciò che osservo. Il paesaggio è ferito da diverse architetture inserite con violenza, sia nella presenza che nella loro assenza. Architetture aliene al luogo ed imponenti, ma che risultano poi fragili. Mi sono domandata come risolvere quella visione spezzata e disarmonica.
Ho isolato gli elementi “cielo”, “collina”, “ponte spezzato” e li ho spostati in modo da riempire quel vuoto visivo con un’architettura naturale, lasciando l’immagine apparentemente inalterata. Ho poi ripulito l’immagine da ogni segno di polvere della scansione, fino all’ultimo granello, come in un rituale sacro. Opposto a questo primo esercizio sul pieno, c’è il tentativo vuoto di ricostruire l’idea di ponte attraverso i due elementi isolati dal paesaggio e riuniti nello spazio del foglio. Quello che manca è tutto: a sottolineare come l’origine stessa di architettura vada ripensata, soprattutto quando diviene oggetto di funzione e non elemento di unione.
In occasione della OPENCALL Filling the absence a cura di Pinksummer (Genova). Una mostra con lavori di Yona Friedman e Peter Fend. A cura di Andrea Canziani ed Emanuele Piccardo, con il contributo di Elisa R. Linn e Lennart Wolff.
Qui le immagini della mostra. Courtesy: Pinksummer.
Nel 1973 Gordon Matta-Clark, invitato a Genova dalla galleria Forma, realizza uno dei suoi primi interventi di cutting legale: A W-Hole House. L’artista trasforma l’architettura di una casa abbandonata a Sestri Ponente, poco lontano dalla Val Polcevera e dai quartieri di Sampierdarena e Cornigliano, in una anarchitettura, che vorremmo intendere qui, innanzi tutto, come un’azione di interruzione del pensiero convenzionale. “Anarchitettura è fare spazio senza costruirlo” – scrive Matta-Clark – “Anarchitettura aggiunge una nozione di eventi non materiali… L’anarchitettura è più vicina al perfetto gioco dei vuoti …”. A coloro che parteciperanno a questa call si chiede di lavorare con l’assenza ed eventualmente di riempirla. Si tratta di una provocazione elusiva, non cinica, ci piacerebbe che il ponte crollato, come la casa del progetto di Matta-Clark A W-Hole House, diventasse, con il suo grande cut, una struttura anarchica, priva di senso univoco, al di là di ogni confine dogmatico, con una sua propria bellezza spaesante atta a ricevere un’intrusione fuori da qualsivoglia consenso paternalizzato e paternalizzante. Lavorare in assenza e con l’assenza, è dialogare con qualcuno o qualcosa che avrebbe dovuto trovarsi in quel luogo, o che è stato in quello specifico spazio per un certo tempo. Vi si chiederebbe di lavorare ossimoricamente con una presenza/assenza, nell’intento forse di provare a abilitare una mobilità (dialettica?) diversa. Significa, per noi, immaginare che si possa ridistribuire una massa, carica di tensione e forse anche di ambiguità, per trasformarla in uno dei futuri possibili. L’assenza, a livello neurologico, è una fugace sospensione della coscienza, una crisi improvvisa, di cui poi rimane l’impressione che sia accaduto qualcosa di profondamente anomalo (assurdo?). Vorremmo che il taglio del viadotto sul torrente Polcevera lavorasse insieme a voi, invitandovi all’intrusione, ospitando le proprie trasformazioni, come se il fisico e il concettuale si adagiassero sul medesimo istante dentro a una “presentologia” liberata, magari da un soffio improvviso della democrazia, dal tempo sequenziale. Ciò che perverrà entro il 15 marzo sarà mostrato alla galleria Pinksummer nel contesto della mostra Filling the absence di Yona Friedman e Peter Fend, ispirata alla simbologia di un ponte, che precipitando ha manifestato tutta la pericolosità di un artificio atto a conciliare perché per dirla con Georg Simmel di Ponte e Porta “Soltanto l’essere umano di fronte alla natura possiede la capacità di unire e di dividere” rendendo la vita forma.
IT | ISLANDISH. A cura di Emmanuel Lambion. Istituto Italiano di Cultura, Bruxelles. 2018
Estratto dal catalogo. Testo di Emmanuel Lambion.
Alice Pedroletti, fotografa e artista visiva, studia da molti anni il rapporto dell’uomo con il proprio territorio, la memoria individuale o collettiva, che essa sia sepolta o, al contrario, viva e attiva, con un interesse specifico per i luoghi abbandonati dove la natura riafferma i propri diritti o, all’opposto, per quelli completamente rimodellati e trasformati dall’uomo.
Il suo interesse per i concetti di vuoto e di assenza, o piuttosto di presenza in negativo, e l’idea di una dilatazione della dimensione spazio-temporale l’hanno portata a sviluppare una
ricerca particolare sul concetto di insularità. Particolarmente attratta dalle isole (semi) abbandonate dall’uomo, conduce, da diversi anni, una ricerca sulle floating islands, che l’ha condotta a candidarsi e a essere prescelta per la residenza a Comacina e, più recentemente, a recarsi a Rabbit Island. In particolare, la storia movimentata dell’isola Comacina, rasa al suolo nel 1169 su ordine del vescovo di Como, l’ha portata a immaginare il rovescio della medaglia di queste pietre, di questa storia, di queste storie sepolte nel lago, e a considerare l’isola come la parte emersa e visibile, sul pelo dell’acqua, di un’entità più grande, diacronica e transtorica.
L’installazione qui presentata, Go with the flow. Study for a floating island: searching for an entrance, trying to float, utilizzata tra l’altro per la cartolina d’invito, ripercorre in modo plastico, seguendo i contorni dell’Isola Comacina, il suo archivio dei lavori sulle isole galleggianti, al cui centro si situa l’idea di un’isola, di una pietra o di una massa senza peso, come lo sono, in modo relativo, secondo una scala più o meno grande e inclusiva, tutti i corpi, sottomessi alla forza di gravità, ma anche galleggianti nell’immensità dello spazio, sebbene sempre collegati a una memoria, a una materia o a uno spazio-tempo che li ingloba. Delle pietre galleggianti, create dall’artista in cemento alleggerito, sono integrate al dispositivo e sembrano evidenziare, in modo metaforico, l’artificialità concettuale di quest’idea di galleggiamento o isolamento. | FR | NL | WORK
IT | Georgina Starr, The Lesson Pinksummer Goes to Rome
Testo di Alice Pedroletti. ATPdiary pubblicato il 04.01.2017
C’è una cosa che mi piace dell’Arte: quando riesce a farti ricordare qualcosa di te stesso che pensavi di aver dimenticato. Ancora di più amo un artista, o la sua opera, quando ci avvicina e mette in relazione con quello che ci circonda, quando spesso ce ne dimentichiamo. E’ così che ci ricordiamo di un fatto che si è magari ripetuto per anni; un evento casuale, un odore abbinato a un colore o un gesto, un suono che nel ricordo hanno un significato e che scopriamo poi averne tanti altri. A volte il ricordo nasce semplicemente da un’associazione di idee che da un punto, e senza seguire per forza una retta, ti porta a un altro punto, lontano, perso.
Un punto prezioso, intimo, decisivo, ma dimenticato nel tempo, sotto a strati di estetica ricorrenti, dialoghi ridondanti, riflessioni opache, pigrizia.
C’è una trasformazione in questo riaffiorare, un nuovo significato che si aggiunge al precedente. E’ come un respiro, quando si nuota e si cerca un ritmo, il proprio ritmo, che si impara ad ascoltare e ad applicare solo con tanta pratica, esercizio, disciplina.
The Lesson, la mostra di Georgina Starr a Pinksummer Goes to Rome è uno di quei punti di cui parlo. E’ un ricordo collettivo, che unisce le persone sotto un gesto materiale e quasi scientifico, la creazione di una bolla partendo da una materia elastica, lasciandole libere di ricordare se stesse e di relazionarsi ad un messaggio: quello dell’artista. E’ anche un ricordo intimo e personale, che assume significati individuali, fondendosi con un ambiente surreale – di soli due colori – in cui la condivisione del pensiero avviene anche senza la parola. Siamo parte di un tutto che ci avvolge, mentre il lavoro manifesta un’idea. La parola che sembra mancare si materializza in forme temporanee: le bolle sono in dialogo tra loro e con noi, con quella parte dimenticata, con quella ancora bambina, con quella che scopriamo li.
La galleria diventa spazio protetto, morbido agli occhi, in cui entrare è il gesto delicato che ci fa guardare le cose senza fretta, come rallentati da una riflessione più ampia, che coinvolge anche il corpo, soprattutto il corpo. E’ un lavoro politico quello che viviamo, nel senso più alto dell’esperienza politica femminile e che possiamo oggi provare, non ri-provare. Non c’è retorica, piuttosto poesia. Una poesia forte, in cui il femminile è deciso, senza essere violento. C’è ironia, c’è gioco, c’è leggerezza. La stessa delle bolle che si ripetono una dopo l’altra, nel tentativo di raccontarci un respiro, una nascita, un esercizio. E’ un mondo sospeso quello della Starr: in un tempo impreciso, che dai video si espande ai disegni e che assume una forma conosciuta – ma sconosciuta – nelle “sculture”, che ribalta la percezione delle scenografie nella galleria stessa, fino al suono, che richiude il cerchio della sospensione e che suggerisce un mondo parallelo, magico.
Cosa è reale? C’è una ripetizione che incanta, incuriosisce.
E’ un mondo di donne, di generazioni, di bellezza, di conoscenza.
E’ sempre difficile usare la parola “bella” quando si parla di una donna e lo è anche quando si parla di Arte. Quando le due cose coincidono è ancora più complicato. Come è complicato parlare oggi di femminismo. Georgina Starr lo fa. Confondendo l’estetica, coinvolgendoci liberamente senza conoscere il nostro pensiero a proposito, costruendo una narrazione che tocca la scienza attraverso la poesia dei colori. E’ così che definizioni prettamente tecniche assumono un significato quasi romantico perchè alleggerite del loro essere tipicamente maschili, grazie alla sua voce che ce le racconta una dopo l’altra. “Volevo fossero in italiano e volevo fosse la mia voce” mi ha detto. Un’opera che richiede esercizio, dentro a un’opera che racconta di un esercizio, dentro ad una stanza che diventa anche scenografia, in uno spazio temporaneo di una città che ha vissuto tutti i tempi del mondo.
Come in una matrioska, una bambola scatola che si apre con la figura “madre” e si chiude con la figura “seme” portando dentro di se diverse emozioni e conciliando i contrasti del dentro e del fuori, aprendosi e chiudendosi, ogni volta rompendosi e ricreandosi, moltiplicandosi come in una eterna rinascita.
EN | A
Text by Alice Pedroletti
The Institute of Things to Come. Workshop with Kapwani Kiwanga. Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Turin, Italy. 2017
Curated by Ludovica Carbotta and Valerio Baglivo.
There’s a dog with a missing leg.
Somewhere else there’s a leg with a missing dog.
In both cases something is missing, creating a space in between the two parts that don’t have a specific time or a specific role.
I will call that space “A”.
Between us and the surrounding world – simply intended as a composition of objects, plants, architecture, animals, and humans – there are always empty spaces where nothing happens, no one lives, silence is the main noise, gender is not defined. An organic architecture that modifies itself while we change, that changes while we evolve. Empty spaces filled with neutral information: utopian landscapes resulting from the removal of everything that affects us both physically and morally. Spaces proceeding from shadows, leftover objects, and displays. Immaterial artifacts from an undiscovered past, imaginary keys for an imaginary future, but also neutral spaces because they are immaterial to our present. Missing pieces from unknown statues, fragments of someone’s life. Are those pieces lost in the past because we don’t see and posses them in our present? Where are they attached to what we are considering missing part in this present? Is this border real?
The “A” space is the residual space: a place between what we feel and don’t. Lines crossing a certain time, in movement, undefined.
The letter a, in grammar, represents one or something. It’s the first letter of the alphabet and in Italian, as in other languages, it’s a privative prefix that changes the meaning of the word to its opposite. In English a is an indefinite article, it doesn’t have any connotation. The “A” space then is missing something, because lost or taken. It also initiates something, marks a beginning because of its position. The privative condition then becomes the beginning of a new undefined status; as in photography or sculpture, the negative is both matrix and subject, depending on the point of view. This organic, undefined and immaterial architecture is both empty and full of meanings and possibilities. It draws shapes without a previous idea of them.
EN | FRIGIDO. LIFE OF AN ARCHIVE. Project by Alice Pedroletti. Curated by Cristina Baldacci. Frigoriferi Milanesi, Sala Carroponte. Milan, Italy. 2013
Text by Cristina Baldacci.
There is something uncanny in Frigido which does not only concern the sense of cold, detachment, and indifference as evoked by the title. It is the emergence of that fear which is renewed every time we find ourselves to be involuntary and helpless witnesses of the destruction, of the diaspora, of the totalitarian control of an archive, and with it the cancellation, partial or total, of the memory. The “archive fever” which echoes in the personal damnatio memoriae operated by Alice Pedroletti is nevertheless only temporary, since the act of destruction does not mark an end, but a rebirth. Consciously and systematically, the artist-photographer frees herself of the images that she has produced and preserved over the years by immersing them in liquid nitrogen molds, which, together with helium, is one of the most effect refrigerants. The extremely low temperatures at which the negatives are exposed – nearly two hundred degrees below zero – produce a stiffening of the material, which, once extracted from the nitrogen, becomes particularly crumbly or friable (the strategic use of cold, here carried to the extreme, is also a reversal of its usual employment in the preservation of film and photographic prints). With the complicity of the case, Alice proceeds to chip manually at the negatives removing any possibility of reproduction of the image, almost every trace of figuration and above all, the tangible proof of part of her experiences and her old photographic work.
This decisive and radical action, in addition to having a cathartic value, shifts the focus from the image to its support, from the scope of vision to that of the material. The artist does not produce new images, but object fragments of various dimensions and colors, that, although, in some cases, may even create the illusion to postpone a “lost” reality to a faded or broken memory – especially when in the fragments isolated figurative details distinguish themselves –, take on a brand new meaning as evidence of the artistic process. To these microscopic objects, Alice relies on the task of handing down another memory: no longer the shadow of people, places, and past experiences, but the concrete sign of her daily work, an approach that from photographic becomes almost sculptural. The freezing and breaking of the negatives are accompanied by a scrupulous analysis. Halfway between scientist and amateur chemist, Alice experiments and takes notes, recording even the smallest change and discovery. She then proceeds cataloging fragments, which follow neither a chronological order (given by different phases of her work) or conceptual, but uniquely formal. All the pieces, with a few rare exceptions, including those specks that, even if not classified, certify the metamorphosis of the material, are meticulously arranged. One at a time or in small sets, they are divided into packets, frameworks, and frames depending on the size, from a maximum of three centimeters to a minimum of one or half a centimeter. In this manner, the artist, on the traces of her first archive, progressively builds a second, while also renewing her way of working. Frigido. Life of An Archive is the story, open and evolving, of this unique procedure, of this obsessive drive to the preservation of everything that belongs to the self, even when the driving force appears to be a desire to move away from what it used to be. It is also a revelation of how even the smallest fragment if watched carefully, as if through a microscope, or projected and enlarged on a wall, may give rise to unexpected visions, suggestions, and connections. | IT
EN | Frigido. Project by Alice Pedroletti. Curated by Cristina Baldacci. Frigoriferi Milanesi, Sala Carroponte. Milan, Italy.
Text by Alice Pedroletti.
I chose the cold (frigidum) as an idea of definitive immobility of the fracture with the existing form. The cold is no longer something from which one has to or can protect themselves from, but something to confront. Frigido is the thought, the memory, the moment in which the pain of emotion makes us grow. Frigido is the separation, the break from the past.
I work with liquid nitrogen because it produces a surprising molecular alteration. Once plunged into the nitrogen, an object (in my case a negative) “freezes” and breaks in a forced and irreversible way. It changes essence and meaning and takes on a new form. As a photographer, I recount in pictures something that passes and fades over time. In a path of continuous growth, I leave behind situations, emotions, encounters, people, feelings, places, and memories.
My memory is like an amplifier that makes what is personal becoming universal. Therefore, in my archives, negatives and slides are never really truly chosen and ordered, but spread around absently, without dates, only with a generic designation for the subject, in boxes, envelopes, and trays. It is a set of memories to be preserved, but also to be let go. There are things for which to reserve space, while others for which to make space. Always, though, too many things, little space, and even less time. Past events to forget, however, that are still physically present. I want to change them into something different. I want to exceed the limit represented by thought, memory. I want to transform. I do not want to reopen boxes any longer. I am not required to remember everything. I want to learn. When photographing something, there is an instinct that I cannot explain, a fast action, sometimes too fast. An attraction to something that I see: colors that speak to me, or a light that makes it impossible to look away. Something magical that remains frozen in small objects seemingly fragile. Here’s how an archive is born: one after another negatives and slides build lives and events. Yet, no one touches them, no one sees them. They are the hidden protagonists of the history of each one of us. They are the matrix, the idea, the thought. It is printing (the medium) that reveals the form that renders them visible. Destroying them is for me an act of violence, of pain; A denial of myself and, at the same time, a liberation.
I’ve often asked myself what photography is: a language, a vocabulary, an alphabet, a connection with the outside world. As with any long and deep relationship, there comes a moment in which the detachment is necessary. You grow up and take your own road, you move away from your family to create this path, to be independent. To me, photography is a relationship (connection) that is closed and reopened by new forms, and first of all, through a breakage.
This project deals with my relationship with art and images. It departs from a place – the archive – in which the photographic image is conserved through the cold. In this process, the link between subject and artist is overturned. When creating an image, the instinct is human, while the technical action is mechanical. When you destroy (to recreate), the instinct belongs to the subject, while the artist’s actions become technical, a cold procedure. In both cases, there is something that remains without control: Time.
Maybe that’s why, now, I have decided to re-build my archive. | IT | WORK
Frigido. Video backstage here .
EN | PLACE to PLACE. Curated by 20° Corso in Pratiche Curatoriali and A+A Gallery, Palazzo Malipiero. Venice, Italy. 2014
Text by Sofia Francesca Miccichè & Giorgia Noto.
Memory is an essential character of identity and the search for identity, collective or individual, is today a fundamental activity of individuals and society. The evolution of the modern world toward mass systems of communication has a pursuit to create a coexistence of collective memories that renounce a linear temporality in favor of a multiplicity of lived times, where “the individual is rooted in the social and collective.” A story that is also written by starting from the collective memory, “topographical places such as archives and libraries and museums; monumental places, such as cemeteries and architectures; symbolic places such as commemorations, pilgrimages, anniversaries or emblems; functional places, such as manuals, autobiographies, associations: these monuments have their story.” Milan artist Alice Pedroletti opens the first room of Palazzo Malipiero with the delicacy and power of memory. From the roots of an intimate private memory, she goes back in order to rebuild, piece by piece, inch by inch; the physiognomy of a complex and transformed lake landscape. Senza Titolo is an installation in progress, which evolves through time, supplied by the memories and objects that structure the landscape. They are, at the same time, objects of affection and precious relics of ancient collective memory. The inner place, where the emotion of a parental bond between the artist and her grandmother resides, becomes the opportunity to draw the boundaries of a real geographical area: the region Piedmont, between Novara and Verbania, where Lake Orta is located; a region that has undergone transformations and changes due to the establishment of the textile factory Bemberg in 1927. The artwork, due to the might of the proportions and the expressive power of the elements that are composing it, captures the glance of the visitor: a monumental collage of photocopied sheets of paper that covers the entire surface of a wall of the exhibition space. In front of the work, like in an archive space, there is a table — a reliquary where the artist has scientifically arranged some items that belonged to her grandmother during the time she worked. A mosaic takes form — which turns out to be a picture, taken from the top of this landscape in constant evolution and the remains of incessant caring documentation by the artist. A hybrid dimension that smoothly oscillates between the faithful reconstruction of these altered areas and the inserts of memory, which are modeling the territory through the morphology of feeling. A vision that acts as a contrast to that formidable geographic map is when the artist combines a small diptych of two photographs of her grandmother and the artist herself while they are bathing in the lake. The position of the two swimmers is similar. Even the similarity of the faces is underlined in order to emphasize the meaning of this work, which fluctuates into the large from the small, which moves from inside to outside, which finds the universal in the particular. It is a hazard synthesis between what belongs to us as individuals and what interests all of us as inhabitants of a place that changes in front of our eyes. | WORK
EN | THE CLASH
Text by Alice Pedroletti
Performance The audience was invited to solve the puzzle without any image or reference to it.
While solving the puzzle we build a relationship, reversing the meaning of the final phrase. Shanghai, China. 2016
Can you really learn to speak another language?
Always, the first thing I wonder when I talk to someone who is not Italian mother tongue is what and how my language looks and sounds from outside.
How many shades are hidden between the lines and the meanings of phrases we say and how can a person get to understand them without being born in that same culture in which during the centuries my language has developed. I do not think it’s possible, that’s my answer. Rather, I believe that we can learn to use a language to the best of our own abilities and sensitivity. Respecting the technicalities, customizing the use of grammar, changing the classic expressions to express our particular personality, being able to jump from expressive ‘professional’ formalities – when needed – to a more free and honest way to speak – when we are just ourselves. To speak a foreign language you must be brave and determinate.
It’s not about the wrong grammar or phonetics that you can accidentally use – that can be pretty common even if you are mother tongue. It takes courage because it exposes a very personal and intimate part of the individual, pushes him to get out of his cultural certainties, makes him trying to communicate through something different. It is common to speak English, but English is not the native language of the world. It’s a convention, a legacy of the convenience of recent history. Despite this, each language – thankfully – carries inside cultural aspects that distort the use of English, making it only ‘one language in the world’, not ‘the language of the world’. It’s a chosen language, in fact, but does not replace the others, rather in support of worldwide communication.
In these two works, I show sentences extract from a dialogue between three people where communication is made difficult by their different backgrounds. English, the mother tongue of one of them, becomes an instrument to determine how the other should be and behave. It’s used by the second person to determine the concept of ‘social’, which seems to be the only right way to talk to someone. Both phrases in the language of the third person involved are aggressive and rude expressions, in opposition to the common education.
The background image is ambiguous: we can see a car, probably involved in an accident. It’s not clear what happened, we could only try to understand or imagine. Is that a clash? Are we sure?
In recreating the puzzle one to one, the artist and the audience attempt to reconstruct something, without knowing what. A dialogue without words, talk is not needed: the goal is to get together and imagine, in any or no language.
IT | AORISTO o Sul tempo.
Testo di Alice Pedroletti.
Realizzato per la pubblicazione Metodo Salgari – Piazza Salgari 6/2014 .
Progetto ideato e curato da Andrea Balestrero, Nina Fiocco, Rogelio Sánchez Velázquez.
Sono in ritardo. Come al solito di corsa, riesco poco ad organizzare i miei spostamenti.
Appena ne decido uno qualcosa succede, accade, avviene e tutto ne risente. Come una biglia rotolo da una parte e dall’altra e la catena delle cose da fare si aggroviglia su se stessa. E così mi ritrovo con una matassa di pensieri in testa e una catena di eventi addosso e io che cerco il capo da tirare per sciogliere i nodi, da una parte e dall’altra. Senza quel principio nulla filerà liscio e quindi scavo, cerco, indago. Faccio buche come un cane al parco, mi inoltro in tunnel bui come una talpa e mi addentro nel buio come un gufo nel bosco. Per distrarmi immagino mondi avventurosi, dove il mio gatto bianco mi fa da guida e penso che forse ogni Alice ha una guida, a volte coniglio, a volte gatto, chissà che animale sarà nella prossima vita? Chissà se sarò ancora Alice nella prossima vita. Forse potrebbe dipendere da quante cose riuscirò a fare in questa, allora forse se non le faccio tutte potrei tornare per finirle?
Che invidia quelle persone che fanno poche cose nella vita e ci si concentrano così tanto da farle così bene che non ti sembra vero le abbiano fatte. Quella cosa che si chiama scopo della vita, uno solo però: chiaro, preciso, determinante. Mi torna in mente quel posto dietro la vecchia casa dei miei nonni, quel distributore di gas metano. Il proprietario vive li da vent’anni e sta costruendo la sua casa in Albania, un pezzo alla volta. Mi aveva anche fatto vedere le foto, una casa normale, una villetta familiare in cui un giorno vuole tornare. Però intanto vive qui, in un posto senza tempo con colonne greche e pappagalli in giardino, alberi tropicali, rovi di rose e aromi del mediterraneo. Ha pure l’orto.
Ecco, lui ha uno scopo: costruire la sua casa. E lo fa a distanza, in una relazione con lo spazio e il tempo che è davvero dilatata, almeno ai miei occhi.
Io con il tempo ho un sacco di problemi. Intanto scorre come un liquido ma non lo si può vedere, il che mi rende decisamente nervosa. L’acqua per esempio la vedi, la senti la tocchi, noi siamo fatti d’acqua. Scorre velocissima, anche più del tempo, occupa uno spazio e ha un volume, insomma l’acqua è quella cosa li, vedi?
Il tempo che volume ha invece? Esiste l’equazione che determina il peso specifico dell’attesa?
Che formula algebrica si applica al tempo dei sospiri? E come calcolo quante ore ho passato a piangere? E il volume delle lacrime corrisponde al volume delle ore?
E che spazio occupa il volume del tempo? Sta in una mano? In tasca? O forse solo nella testa di chi riflette? Il tempo è un problema perché manca. Almeno così in molti dicono. A me sembra ce ne sia anche troppo. Quello che davvero manca è poterlo controllare. Se potessi controllare il tempo farei molte più cose. Per esempio dormirei tantissimo, sempre. Poi mi sveglierei e farei svegliare il mondo quando voglio io.
Farei andare tutto ad un ritmo musicale sempre diverso, per non annoiare nessuno. Farei durare la notte di più a volte, così da dilatare il silenzio che si genera mentre tutti dormono. Fermerei tutto quello che potrebbe succedere in un posto quando io non sono in quel posto: un po’ come quando pensi che quando te ne vai tutto svanisce, in fondo se esiste la tua realtà è solo perché i tuoi occhi ci si posano sopra. Insomma se potessi controllare il tempo controllerei il tempo stesso.
Non ci sarebbe distanza nell’amore tra amanti lontani perché non sarebbero più lontani, non servirebbero più ore per raggiungere un luogo perché ogni luogo sarebbe li, o qui o forse dietro il primo angolo. E non si crescerebbe più perché non ce ne sarebbe bisogno. Crescere è dare un senso al tempo che scorre e che non possiamo vedere, che misuriamo con le rughe di un viso, il colore dei capelli di un genitore, gli avvenimenti della vita di un amico. I figli, il matrimonio, un nuovo lavoro appaiono nella vita di ognuno di noi come palazzi in città, centri commerciali in periferia, autostrade più larghe, ponti più lunghi, treni più veloci. Antropizzazioni geografiche e di vita. Il tempo l’uomo lo misura con l’evoluzione, a volte tecnologica, a volte sociale.
Ma in fondo, resta sempre quella cosa senza un volume, che inseguiamo, che ci fa restare in attesa per ore o per anni senza certezze, anche se oggi pensiamo una cosa che potrebbe non valere più nulla quando quel tempo senza un volume, sarà passato.
Se potessi controllare il tempo lo regalerei come un oggetto prezioso, per fare uno scherzo, sapendo che in realtà, in se, il mio tempo non ha prezzo e non è prezioso, senza di me.
Il tempo, che rogna. Non si può costruire ne distruggere, si può misurare in lungo, largo, alto e basso perché non ha una forma, non lo vedi ma lo senti, lo senti ma non sai come, ha la forma di un quadrante ed è fatto di numeri così che lo si possa provare ad ingannare, ma il tempo è anche nella parola, è ovunque! Passato, presente, futuro, perfetto, imperfetto, prossimo, anteriore, semplice, indicativo, remoto, perso. Come si perde qualcosa che non si possiede? Lo voglio! Per poterlo buttare. Se fosse una persona ci potrei litigare. Già. Con il tempo ho dei problemi, perché è una relazione a distanza. E io non sono brava per nulla, con le attese e le distanze.
IT | La visione possibile
Testo di Sibilla Zandonini per TEMA Project Room.
OPS . Un progetto di Alice Pedroletti, realizzato grazie al supporto di Movie People, FaMa e Byblos Collection.
Nel 1928 Renè Magritte dipinse il famoso “Il falso specchio – Le Faux Miroir”, nel quadro si vede un occhio in primo piano nella cui iride è riflesso un cielo nuvoloso e la pupilla nera fluttua nel mezzo, come fosse un sole eclissato. Nel titolo il pittore surrealista racchiude il significato profondo dell’opera, semplice solo all’apparenza. I nostri occhi funzionano come specchi, ciò che si riflette nella nostra iride è ciò che vediamo, è dunque una porzione di cielo ciò che sta osservando l’occhio?
Eppure guarda fisso di fronte, ma noi non vi siamo specchiati. Si tratta dunque di rappresentazione dell’anima, del suo mondo interiore rivelato? Così facendo Magritte inficia le nostre convinzioni, la nostra fiducia nell’immagine come verità. Per il pittore belga nell’arte conta il pensiero, non la tecnica; la funziona mimetica della rappresentazione è falsa: la pittura non può svelare l’oggettività del mondo poichè vi è sempre un elemento soggettivo che la influenza. Un’intuizione questa che, applicata alla fotografia, appare dirompente.
L’inganno fotografico in Ops. fa il doppio giro, la fotografia si fa immagine in movimento mentre il video stesso diventa il mezzo per fermare un istante e le soggetività che entrano in gioco sono quella dell’artista, dell’occhio e infine la nostra. L’occhio che ci troviamo a fissare ancora una volta non riflette la nostra immagine.
Sappiamo che quell’occhio appartiene ad un volto, ad un corpo, potrebbe essere il nostro occhio, quello del nostro vicino, eppure, osservandolo, pare sia intento in una battaglia propria. Un organismo unicellulare osservato al microscopio, una particella di plancton che si muove in un mare rosaceo e l’effetto poetico che ne scaturisce è sconvolgente. Ci troviamo di fronte ad una tale libertà di prospettive che in un solo occhio ritroviamo la complessità e l’eterogeneità dell’intera vita. Lo spettatore smette così di essere osservatore per diventare una macchina re-agente, diventa portatore del messaggio dell’occhio in un modo anche fisico. Il corpo attorno all’occhio ha poca importanza, in quanto immobile, ma i pensieri, i desideri che lo muovono sono vivi, sono reali e lo spettatore è il mezzo per uscire dalla condizione di impossibilità. Siamo noi a riflettere l’occhio che ci fissa.